A me Iva Zanicchi non piace. Mia madre invece ne va matta.

– cinquemila e settecento lire!

Sta guardando Ok il prezzo è giusto e tenta di imbroccare il prezzo di un nuovo spazzolone per pulire per terra.

Lela e Marco sono seduti dietro di noi, praticamente sulle sedie da cucina.
Noi stiamo qui al buio, sul divano, con le finestre spalancate e la luce spenta, che sennò arrivano le zanzare.

Me ne sto tutto rannicchiato a succhiarmi la pelle del polso che sa di salsedine e di Leocrema.

Se l’estate ha un sapore, è certamente questo qui, che ogni giorno mi si spalma sulla pelle, dopo ogni bagno, per evitare che la pelle chiara mi si scotti.

Lela viene con la famiglia qui in agosto.

Abita parecchio lontana da noi, al nord, ma quando scende con la sua famiglia finiamo tutti qui, a sere alterne, una volta da noi e una da loro, a mangiare anguria e ascoltare vecchie storie di paese.

Lei e mio fratello Marco si sono sempre annusati abbastanza. Ma quest’estate di più.

– Apriti sesamo!

Mia madre impazzisce per l’Apriti Sesamo quando la porta gira, la voce femminile descrive il prodotto e subito dopo i concorrenti devono indovinare il prezzo giusto.
Mia madre partecipa come se fosse lì davvero: si arrabbia se non indovina, urla i prezzi come se i concorrenti potessero sentirla, se ne esce con esclamazioni assurde quando qualcosa secondo lei costa troppo.

– Diecimicinquecentolire!

Sono in un’età di mezzo. Mi lasciano guardare la tv accoccolato qui. Ancora non posso starmene troppo in disparte, come Marco e Lela. Loro hanno 8 anni più di me. Sono quasi considerati adulti. Mio fratello ormai lavora nella fabbrica di tubi qui vicino. Lela studia ancora, ma è avanti bene con gli esami. Si mormora che diventerà professoressa o avvocato o qualcosa di altisonante.

Gli altri sono sul balcone a cercare un po’ di frescura.

Ogni tanto c’è la pubblicità, e mi accorgo che quando mamma si alza per uscire o per andare in cucina a bere un po’ d’acqua, Lela e Marco si discostano.

È così da un po’ di sere. Si mettono nella stessa posizione, e fanno attenzione a stare sempre un po’ in disparte. Si parlano fitto fitto, vicini vicini, e quando lo fanno in pubblico ed è troppo, mamma li riprende per decenza, perché è vero che Lela è una brava ragazza, ma è anche vero che sta al nord, e mamma non ne vuole sapere di vedere Marco andarsene lontano.

– Quattrocentodiecimila!

È uno spolverino all’ultima moda. Qualcuno si affaccia dal balcone per vedere cosa costi tanto. Roba che qui non lo avrebbe nessuno. Anche perché il freddo freddo non sappiamo neanche cosa sia.

Mamma si alza, accende la luce e Marco e Lela si staccano: lei è più bella del solito con le guance così rosse. Se ne accorge anche mamma.

-Che caldo che fa, vero Lela?
-Si signora!
-Vuoi acqua?
-No, sto bene così, grazie!
-Io si mamma

Marco si alza e la raggiunge prendendo due bicchieri.

Lela è scapigliata, un po’ sudata, ha lo sguardo imbarazzato.
Si scambia occhiate di sfuggita con Marco, si sorridono, ammiccano.

Finisce la pubblicità e mamma torna sull’altra sponda del divano, spegne la luce e continua a urlare prezzi alla Zanicchi che non guarda lei ma i signori del pubblico.

Lela e Marco sussurrano piano. Sento schioccare baci di saliva lì dietro le mie spalle. Mi giro appena e li seguo con la coda dell’occhio, tra i baluginii della tv, scrutandoli come fa il cecchino col nemico.

Odio mio fratello.

Lo odio perché Lela deve sapere di buono, di zucchero del luna park e di giostre. Di allegria e risate a piene polmoni. Sa del fieno appena tagliato. Del fondo della ciotola dell’impasto della torta, quando te lo lasciano leccare col dito.

Sa di casa, e di discese ripide a perdifiato. Per me lei deve avere quel sapore lì. E lui sicuro neanche lo sente con tutte le sigarette che si fuma.

Marco le tiene una mano tra le gambe. Le sussurra baci e frasi dietro l’orecchio. Lei ride, gli dice di piantarla, di smetterla. Si ritrae, ma quando lui riappoggia la mano sulla sua coscia lo lascia fare un po’ di più.

È bella Lela così.
Bella quando si imbarazza, quando si schernisce.

-Apriti sesamo!

Me ne sto tutto rannicchiato dietro la spalliera, mi sporgo appena oltre il copridivano Caleffi che fa sembrare il divano ancora buono.

Lui le ha infilato una mano proprio lì in mezzo, in basso. Intravedo giusto un attimo il triangolino delle mutandine di pizzo poi non so. È buio.

Credo che le piaccia perché ha chiuso gli occhi, anche se ogni tanto sbircia la tv per controllare cosa faccia mamma. Sembra che Marco possa controllarle il respiro. Più muove la mano, più veloce lei respira.

Le spezza i sussurri, le fa affiorare baci sempre più caldi dalle labbra.

Le fa socchiudere gli occhi. Le dita di Marco spariscono dentro di lei che si inarca e zittisce un respiro in gola mordendogli piano il collo.

Più le dita insistono, più la lingua di Lela assaggia quella di Marco.

– quindicimila!

Marco dice che per comprarsi l’amore di una ragazza bastano un po’ di fiori, qualche moina e poi è tua. Io non lo so quanto è costato l’amore di Lela.

Non so quanto costi un mazzo di fiori.

-Mamma?

-Che vuoi?

-Quanto costa un mazzo di fiori?

-E che ti fa? Perché vuoi saperlo? Vuoi andare anche tu dalla Zanicchi?

Mi giro, alzo lo sguardo e incrocio quello di Marco, che mi fissa di traverso, sopra la spalla, mentre Lela le si è fatta contro e gli respira sullo sterno, stringendogli la mano forte tra le cosce.

Con un balzo lui mi è accanto.

Mi assesta giusto un coppino secco, dietro la nuca, di quelli che ti fanno rimbalzare in avanti la faccia e ti riempiono di imbarazzo

– E che ti guardi tu? Mh? Che ti guardi?

Me lo sibilla all’orecchio come un dardo.

Fisso la tv rosso di vergogna.

Non stacco più gli occhi, anche se ormai con le orecchie non riesco a non far caso a loro, ai respiri di Lela, ai sussurri…

-No!

Le sento dire appena, ma è un no di disappunto. Non posso girarmi per vedere cosa succede.

Lela scatta in piedi. Marco la segue. Si fionda in bagno.

Anche mamma fa caso al marasma.

-Tutto bene? Che avete?
-Si mamma, Lela è dovuta andare un attimo in bagno.

Vedo che Marco va verso il bagno pure lui, asciugandosi il dito nel fazzoletto.

È sporco di sangue. Tiene il dito medio della mano fermo, come se conservasse sopra il ricordo di qualcosa.

Se ne sta appoggiato alla porta a sussurrare cose a Lela che non capisco. Lascia la mano e soprattutto quel dito sollevato, non lo appoggia, come se gli facesse male. Ma il sangue non è il suo.

È di Lela.

Le parla, le dice che non è nulla, una roba normale.

Lei è dentro e non esce.

-Ma che, le hai fatto male?

Oso chiedere.

-Non sono affari tuoi, e vattene va!

-Ma le hai fatto male?

Non so come mi esca, ma mi viene, perché so che quel sangue non è di Marco ma è di Lela, e le veniva da dentro se lui ci ha messo le dita e ora vorrei capire che sta succedendo.

-Sparisci!

Me ne torno di là.

Lela dopo qualche tempo esce e infila la porta di casa urlando un arrivederci in tutta fretta.

Mamma dice un ciao mentre scandisce cen-to cen-to alla ruota della fortuna

Non abbiamo più visto Lela per un po’.

Quando abbiamo chiesto la madre ci ha fatto sapere che aveva da studiare per preparare un esame e nessuno ci aveva trovato nulla da ridire.

Poi un giorno la incrocio. Se ne sta a casa sua, sul terrazzo, a guardare il mare. Sta sorseggiando il limoncello, quello fatto in casa dai suoi. Qui tutti lo facciamo così.

Mi fissa.
-Ciao
Si affaccia meglio, accoccolandosi al parapetto
-ciao!
L’aria le scompiglia un po’ il vestito.
-Come stai?
Sembra stupita dalla domanda.
-Bene, perché?
-Perché avevo capito che Marco t’ha fatto male l’altra sera.
Mi fa cenno di salire.
Non vuole che se ne parli lì per strada.
La raggiungo.
Da lì si vede il mare.

-Ne vuoi?

Versa il limoncello senza aspettare la mia risposta.

Ne fa uscire un filo sempre uguale alla bottiglia, e il liquido si raggomitola preciso e fermo nel bicchierino lavorato, appannandolo tanto è freddo.

Il vento spiega le tende e la biancheria che ha steso all’aria come se fossimo su un vascello.

Bevo. Non lo sa che di solito non mi è permesso. È la prima volta che ne bevo così tanto, di solito assaggio di nascosto il fondo dei bicchieri quando a casa mi fanno sparecchiare il tavolo.

Il limoncello brucia quasi in gola. È freddo, pastoso, profumato come un frutto fresco all’inizio, poi scende piano e scalda come questo sole d’agosto.

Scalda la gola e mi scioglie la lingua.

Inspiro aria di mare, limoni e fuoco.

-Non mi hai risposto
-E che c’è da rispondere?
-Ti ha fatto male?
-Ma che ti importa?

L’alcol mi dà coraggio. E anche il suo vestito beige.

-Mi importa perché ti voglio bene.

 Sorride. Mi guarda dolce. Mi accarezza sulla guancia

-Tu sei in gamba, sai?

-Giura che stai bene

-Si, non preoccuparti

-Ma la ferita si è chiusa?

Ride

-Oddio! – mi fissa di nuovo, facendo di no con la testa, quasi come se non ci credesse – Sei ancora così piccolo!

E continua a ridere di me. Ora oltre alla gola mi brucia anche l’anima. Mi volto offeso e me ne vado camminando deciso, senza salutarla.

Passo accanto al bucato lindo, strappo via le sue mutandine. Sono quelle dell’altra sera, lo so.

Me le infilo in tasca e penserò cosa farne: forse un rifugio di ricordi. O forse un cimelio da mostrare con gli amici per parlare male di lei.

Sbatto il portone e sono già in strada.

Non ride più ma mi sta guardando. Sento gli occhi che mi accompagnano.

-Zoccola.

Lo dico abbastanza piano da sapere di averlo detto. Lo dico rabbioso come lo dicono di solito gli adulti perché mi ascolta e so che le è arrivato fin là.

Non so esattamente cosa voglia dire, ma so che per una donna è una parola che può bruciare, forse più del limoncello.