Un giorno qualcuno dovrà spiegarmi, e dovrà farlo scientificamente, perché quando uno è innamorato sospira. No, perché non c’è un senso al mondo, per questa cosa.

Stomaco. Che. Si. Accartoccia.

Pensieri e nutella, e le notti che si allungano all’infinito. È bastato uno sguardo, poi nulla è stato più come prima. La primavera si è trasformata in estate, il verde dei campi ha lasciato il posto al rosso della terra bruciata. Ma vivida, di promesse.

“Piacere, Arancia”, e un sorriso di distrazione, mentre il vento le scopre le gambe leggere e lucide. Me le ricordo le gambe abbronzate delle ragazze, che sfilano all’ora del tramonto in paese. Quando tornano dal mare e si spalmano il doposole che le fa risplendere. E l’aria profuma di agrumi. Arancia, che strano nome. Neanche il tempo di impararlo e già non posso farne a meno. Indossa un cappello di quelli che si mettono solo in vacanza, e mi chiede se ho tempo di farle una fotografia. Sullo sfondo la baia di Peschici, il mare del Gargano mai così silenzioso, accomodante.

“Sei sola?” le chiedo.

“Sì, i miei amici sono rimasti in albergo, volevo fare un po’ di foto, c’è una bella luce a quest’ora”.

“Se vuoi ti accompagno in un punto, da dove si vede tutta la baia”.

Mi guarda stranita. Non pensavo di essere stato indiscreto. Non mi risponde ma si mette in marcia, Facciamo uno, due, tre passi. Solo al quarto capisco che mi sta seguendo. Non mi ha risposto, ma ha già ripreso a fotografare. Il vento le fa volare il cappello. Io lo rincorro, come un bravo cavaliere farebbe per la sua principessa. Rincorro a perdifiato il maledetto fino alla veranda che affaccia sul mare, poi sono costretto a fare una scelta. O mi copro di ridicolo per salvare il cappello, o mi arrendo con classe e lo lascio volare. Scelgo la soluzione peggiore. Mi butto, e non lo prendo. Anzi, lo lascio volare via. Mi rialzo, e lei ride. Io sono desolato, ma lei non sembra preoccupata. Si mette le mani sui fianchi e mi dice solo “Sei un pollo”.

Ecco come si passa da cavaliere intrepido a pollo in un minuto: inseguendo un cappello di paglia spostato dal vento.

“Come ti chiami?” Mi chiede

“Paride” le rispondo.

“Come mai?” disse quella che si chiamava Arancia.

“Perché i miei genitori amavano la storia greca, e volevano un figlio forte e coraggioso, ma non arrogante come Achille”.

“Bella spiegazione. Scommetto che Achille però l’avrebbe raggiunto il cappello”

“Bella forza, lui è un piè veloce. Ma pieno di ubris

“La tracotanza” disse lei facendomi l’occhiolino.

“Hai fatto il liceo classico?”

“No, sono autodidatta, lavoro in una libreria e mentre faccio l’inventario leggo tutto quello che posso. La mitologia mi ha sempre affascinato”

“E tu perché ti chiami Arancia?” ribaltai la domanda.

“Perché mia nonna era spagnola, e Arancha si scrive con l’h, solo che all’anagrafe di Sant’Ippolito non l’hanno capito. E così mi ritrovo il nome di una spremuta”.

“Hai fame?” le dissi, a bruciapelo. Le cose si stavano mettendo incredibilmente bene, nonostante la figura da pollo che avevo fatto con il cappello.

“Sì, ma mi hai promesso che mi facevi vedere la baia del punto più alto”

La portai in quel punto. Guardammo le case bianche arroccate sulla spiaggia. I tornanti che dal mare portano alla città, il verde dell’acqua. Poi la portai a mangiare. Fu un tripudio di friselle con i pomodori al filo, bruschette con un olio garganico che pizzicava il palato. Orecchiette con le rape e un assaggio di fave e cicorie.

“Te ne metto un altro po’?” le dissi mentre il suo sguardo mi entrava definitivamente nel cuore. Per sempre. In maniera inequivocabile. Se mi avesse chiesto di rapire qualcuno o di rubare per lei, in quel momento, avrei fatto qualunque cosa.

“Io sono sazia, ma come si fa a dire di no…”
“Dai, che hai la faccia da bis”

Mangiò di gusto. Mi raccontò del suo viaggio in Puglia, del suo lavoro, di un sogno mai realizzato. Il cameriere versava il vino, e io non capivo quando avrei potuto baciarla. Forse subito. Forse dopo un’ora. Magari salutandola. Non la baciai. Mai. Le misi solo una mano sulla schiena scoperta, mentre mi congedavo e la ringraziavo per la giornata. Credo che l’abbia sentita quella mano sulla schiena, almeno questo è ciò che mi hanno detto i suoi occhi. Da quel giorno, a Peschici, il vento profuma di agrumi e l’estate ha l’odore della crema doposole che le ragazze mettono sulle gambe. Il cielo ha i colori del suo vestitino, e io cerco in ogni vicolo una ragazza con gli occhi vispi e l’aria di una che si è persa, ma che non ha nessuna intenzione di ritrovare la via. Sospiro e aspetto un suo bacio. Perché sono sicuro che se Arancia mi bacia, io riprenderò a respirare.