È inutile guardare il menù.

Ordina lui per me: sarà qualcosa di sano perché non ammette sgarri alla regola.

Niente cibo troppo grasso o saturo di condimenti. Di solito sono soprattutto proteine.

Ci tiene alla sua dieta. E anche alla mia.
Da quando sono entrata in suo possesso faccio una vita più attenta a tutto.

È entrato nel locale aprendomi la porta, ma poi ho imparato a cedergli il passo.
Controlla che io possa essere esibita, guardata, ma nessun uomo mi si può avvicinare più di un metro.

Quando succede chiede di cambiare tavolo, innervosendosi. Li sceglie apposta abbastanza defilati.

Ma lo fa solo nei momenti del gioco.
Le regole sono ferree e valgono quando usa il mio nome d’arte. Nessuno mi aveva mai chiesto di inventarne uno. In questo mi ha lasciato libertà.

Poi se l’è presa tutta.

E sono diventata cosa sua.

Di unico dominio.

Ho scelto di chiamarmi Lana. Perché sono calda, ma anche perché mi raggomitolo, e con lui sono così: piena di bisogno di protezione.

Mi chiama Lana quando il gioco comincia e quando sono in toto sua, al suo comando, felice di obbedire ad ogni desiderio.

Sono alla sua mercé: non posso – e neanche voglio- rifiutarmi di fare nulla.

È un gioco di sottili imposizioni che si è preso la mia vita un giorno alla volta. E mi fa sentire piena di me, nonostante non sia più mia.
Tengo lo sguardo basso, dimesso.

Se dovessi alzarlo e trovare la sua disapprovazione la mia insolenza mi costerebbe una punizione. E di solito è molto originale nel trovarne.

Può lasciarmi ore inginocchiata ad aspettarlo in una camera d’albergo. O chiedermi di fare cose di cui mi vergogno.

Non fa mai nulla che possa mettermi in pericolo.

Fa tutto per me, in questo gioco di controllo minuzioso che cela una cura maniacale, un istinto di protezione assoluta.

Sono sua.
Sua in ogni modo. Sua in ogni momento. Sua in ogni pensiero.
Sono sua come nessun altro mi ha mai avuta.
Sua quando comincia il gioco.
Sua quando mi chiede di assecondarlo.
Sua quando decide per me.
Sua quando mi sfama, sua quando mi tiene digiuna.
Sono sua per scelta di entrambi.
Sono sua perché ho deciso di esserlo in questo gioco di smaterializzazione della persona.

Sono sua.
Eppure sono più forte di lui.

– Cosa desideri?

Ogni parola può essere la scusa per una punizione. Ogni frase di troppo o un gesto di ingordigia mi varrebbe un’ispezione profonda, o una tortura sottile, beffarda ma sopportabile, giusto per piegare la volontà quel tanto che basta per far urlare il desiderio. A quello segue sempre l’amore. Feroce, pieno di noi, delle cose che riempiono questo rapporto.

– Mi piacerebbe scegliessi tu per me.

Ho imparato ad essere docile, a controllare gli istinti , a tenere le voglie come un carico pendente del desiderio.

– Ti va un primo e un po’ di carne bianca, Lana?

Ho un brivido quando pronuncia quel mio nuovo nome, quando l’avvio del gioco è conclamato, quando il possesso è dichiarato.

– Ne sarei felice.

Non apparire troppo golosa, non desiderare troppo o troppo poco, mantieni un equilibrio.
Mi riempie il bicchiere d’acqua.

– Bevi, sai che è importante.

Lo so: bere per avere la vescica piena, non allo stremo ma piena perché il piacere così sia più intenso, e zampilli goccia a goccia.

È importante stare bene ed essere sani. Lo sono, lo siamo, in questo gioco delle parti dove chi è comandato in realtà comanda, perché senza i miei si e senza i miei acconsento, questa storia non ci sarebbe. E l’eccitazione nemmeno.

Arriva la cameriera, alzo lo sguardo. Trovo i suoi occhi piantati dentro i miei. Forse ho appena recuperato una nuova punizione, non lo so, ma so che alla fine sarà dolce, carica di piacere.

– Signori, avete scelto?

– Per la signora petto di pollo e verdura, per me anche.

– Gradite del vino?

– No grazie.

Mi fissa. Gli sorrido. Forse sono anche arrossita, non lo so.

– Voglio che tu faccia una cosa, Lana.

Non posso dire di no. Non voglio dire di no. È un gioco che conosco.

È fatto di obbedienza, di piccoli scatti di orgoglio che mi costeranno lividi e orgasmi rimandati per farmi perdere il controllo. Ancora, ancora e ancora, fino a lasciarmi spossata e felice su un letto non nostro.

– Voglio che tu vada in bagno e ti sfili le mutandine. Voglio che torni e sotto devi tenere solo le calze. Voglio che la tua pelle sia a contatto con l’aria e con la sottoveste. Voglio sapere che sei nuda per me.

– Ora?

– Ora.

Questo gioco ammette rifiuti minimi. Tocca a me decidere se acconsentire.
Espiro. Bevo un sorso d’acqua. Mi riempie di nuovo il bicchiere. Ci sto mettendo troppo a decidere? Mi alzo, cammino lentamente. So che mi sta ammirando e forse lo sta facendo anche qualcun altro nel locale.

Mi sfoggia con orgoglio.

Vado in bagno.

È abbastanza pulito. Mi chiudo la porta alle spalle e obbedisco. Faccio quello che mi ha chiesto. Alzo la gonna fino alla vita.

Porto biancheria facile da togliere, cose sotto cui può infilare facilmente le mani, dove può trovarmi a piacimento.

Tolgo le mutandine di pizzo. La fodera della gonna scivola sinuosa lungo i fianchi. Fuori di qui sta immaginando il fruscio dei miei abiti.

Appallottolo stretto il pizzo tra le mani, per l’imbarazzo che qualcuno possa sapere, o percepire, cosa tengo in mano. Portano già traccia dell’umido che mi sta regalando.

Ho l’istinto di inumidirle per togliere un po’ del bianco perlaceo di cui sono macchiate. Ma so che in realtà è felice di avermi. Sono i segni del mio cedimento.

Della resa del mio corpo alle sue parole. Resto con addosso solo le autoreggenti. Mi aggiusto la gonna ancora una volta ed esco.

Camminare così, sapendo, ti fa sentire davvero nuda. Mi aspetta al tavolo e so che sotto la tovaglia ha già un’erezione che lo tradisce.

Sorride.
Sono la sua schiava, la sua donna, il suo voluttuoso gioco preferito.
Mi siedo.

Mi allunga una mano perché gli consegni la biancheria.

Per esserci gioco ci deve anche essere la disobbedienza, perché tutto diventi più saporito. Altrimenti sarebbe come tentare di ubriacarsi con l’acqua.

Allungo la mano verso la sua, ma non lascio cadere le mutandine nel suo palmo. Le infilo nel suo bicchiere colmo d’acqua e faccio quello che non dovrei fare: sfidarlo.

– Alla tua salute!

Faccio tintinnare il mio bicchiere contro il suo e bevo.

Il dado è tratto.

Sono pronta ad assaporare ogni istante della mia sfacciataggine. Sorride ma allo stesso tempo lo sguardo si fa severo. Mi sono appena guadagnata la peggiore delle punizioni. E non mi piacerà per niente.

O forse sì.