La prima volta che ho appoggiato le mie labbra sulle sue, mi è parso di non aver mai baciato nessuna prima. Ho chiuso gli occhi ed ho aspettato il momento in cui il suo respiro e il mio sono diventati la stessa cosa. Fino a quando lei non mi ha detto:

“Respira dentro di me”.

Mi sono fermato, l’ho guardata negli occhi, con l’aria di chi non aveva capito bene.

“Respira dentro di me, ti prego”

Mi sono avvicinato un’altra volta, ho chiuso gli occhi. Ho posato la mia bocca sulla sua, attento a non far uscire l’aria. Ho respirato. Sempre più forte. Ho lasciato che lei respirasse dentro di me, ed ho capito che da quel momento in poi non avrei voluto assaggiare altro che non fosse il suo fiato.

Quell’estate alla radio passava sempre una canzone, non ricordo come si chiamava, ma il ritornello diceva “Ti vedo scritta su tutti i muri, ogni canzone mi parla di te”. Era vero, quando tornavo a casa, verso San Vito, ogni scritta, anche la più sgrammaticata, era dedicata a Flavia. La poesia, si sa, è sopravvalutata. A volte basta il pensiero, e il mio era per lei. Quell’estate si respirava un’aria magica, l’Italia era ancora un paese bellissimo, un posto che sapeva fermarsi a guardare il cielo che si spegne nel mare, ma forse era così per noi che eravamo più giovani. Mia madre preparava le friselle, mio padre si faceva portare i pomodori da San Marzano, l’olio dalla campagna di Pagliamonte e quella era la nostra festa. Ogni sera un rito laico fatto di ingredienti semplici, di gesti naturali: la frisa bagnata nell’acqua che torna a galla e viene rispedita verso il fondo con le dita. Due volte, se la volevi croccante, tre volte per sponzarla. Un filo d’olio, il sale che è più buono se lo prendi con le mani ancora umide d’olio, perché poi puoi leccarti le dita, come se fosse una promessa di quello che verrà. Quei ricordi sono come libri sistemati in seconda fila, dietro altri libri, e sono ancora tutti lì. Come i baci di Flavia, e l’aria che respiravo dalla sua bocca. Lo sportello del frigo aperto, il rumore di cose appena sistemate spostate alla rinfusa. I pensieri mi accompagnano fino all’ingresso di quel vecchio residence. Nulla era cambiato. Nemmeno una mano di pittura nuova per rinfrescare la scritta “Il tulipano rosso”, neanche un po’ di ruggine da scrostare su quel passaggio a livello anacronistico, come un portiere che fa selezione all’ingresso, in un posto che non ha più molto da selezionare.

“Prego?” mi dice.

“Sono Armando, non so se si ricorda”

Mi guarda con la consapevolezza che questa, la mia, è la domanda dell’anno. Quella che stava aspettando da un’estate. Fare il portiere in certi posti deve essere piuttosto noioso, e doversi ricordare di qualcuno è una sfida intrigante. Angelo incrocia le braccia e inclina la testa per potermi osservare meglio.

“Per darmi del lei, vuol dire che non vivi da queste parti, qui nessuno mi dà del lei”

“Qui non sono arrivati i russi a rubarci le case?” – gli domando a bruciapelo.

“Macché, qui nemmeno i tarantini se le comprano più le case. E i turisti vanno tutti in Salento. Al massimo sul Gargano.”

“Meglio no? Meno casino. Da quelle parti non fanno altro che lamentarsi del turismo.”

“Ho capito chi sei. Cavolo se sei invecchiato male!”

“Grazie Angelo, sempre gentile”

“Diego è morto”.

Mi gela. Con cinismo. Ignorando che so già tutto. Ma questo è Angelo, e in un attimo mi ricordo del suo carattere. Niente giri di parole, “Diego è morto”, come a dire: “Che cazzo sei venuto a fare”.

“Lo so, non sono più tornato da allora. Sono passato a trovare Flavia”

“Si è sposata, ha un bellissimo bambino”

“So anche questo. Ne ho uno bellissimo anche io. Si chiama Diego”

Silenzio.

Mi alza la sbarra anacronistica del passaggio a livello e mi fa cenno di entrare. Come se non servissero più altre spiegazioni, come se il nome che avevo dato a mio figlio fosse sufficiente a farmi passare. A riconquistare quella terra ormai sconosciuta. Prima di incamminarmi verso le ville mi giro un’ultima volta verso di lui.

“Abita sempre lì vero?”

“No, un paio di villette più avanti verso l’ingresso della spiaggia. Dove avevate costruito quel campetto di pallone, che scassavate il cazzo tutti i pomeriggi

Se non altro si era ricordato chi ero.

Io e Diego ci siamo conosciuti nell’estate del 1985. Da bambini andavamo a mare allo stesso stabilimento e d’inverno ci scrivevamo lettere lunghissime che Diego conservava nella scatola di un paio di Nike da calcio. Sua sorella Flavia è stato il mio primo amore, siamo stati assieme quattro anni e ci respiravamo dentro mentre ci baciavamo. Quella sera che Diego non è tornato a casa, per colpa di un colpo di sonno di uno che andava nella direzione opposta alla sua, Flavia mi ha telefonato. Non vedevo Diego da dieci anni, ma lei aveva riaperto la scatola, e mi aveva chiesto di tornare. Perché Diego parlava sempre di me, anche da quando non ci vedevamo più. E non c’era un motivo preciso, non era successo nulla, solo che io avevo smesso di venire in vacanza da queste parti. Per dirla tutta, avevo smesso di andare in vacanza, e mi veniva l’ansia al solo pensiero di tornare ogni volta che arrivano le feste di Natale, con gli amici e le ex da rivedere. Ma quel giorno no. Dovevo un abbraccio a Flavia. L’unica persona di cui conoscevo, oltre la battito del cuore, anche il respiro. Era un segreto tra me e lei.

“Non ci credevo che saresti venuto”

Ho allargato le braccia, ed ho guardato suo marito, come per chiedere il permesso di abbracciarla. Lui mi ha fatto un cenno con la testa, e io sono scoppiato a piangere.

“Sei invecchiato bene però”

“Dici? Angelo non è d’accordo con te”

”Col tempo è diventato più stronzo”

E il pianto si è trasformato in una risata, consapevoli del fatto che non saremmo mai potuti tornare indietro sui ricordi di Diego, su quella scatola di scarpe della Nike con le lettere dentro. Mi fece entrare, ci sedemmo a parlare, a raccontarci dei nostri bambini, di quelle estati spensierate, dei panini che andavamo a comprare da Poldo – rigorosamente con würstel, senape e patatine fritte – con il motorino, della pizza della Fine del Mondo, che era davvero la più buona del mondo. Passammo così il Ferragosto, poi lei e suo marito mi portarono a vedere la piccola che dormiva. Entrai in silenzio, li guardai al buio e pensai che erano bellissimi e che io ero di troppo. Mi ricordai dei baci con Flavia, scoprii di avere ancora un po’ di sabbia nelle tasche, e spighe nelle calze, come se quella estate di un quarto di secolo fa non fosse ancora finita del tutto. Fuori le giornate iniziavano ad accorciarsi. Come quando con Flavia tornavo dalla spiaggia e iniziavo a realizzare che l’estate stava per finire e che avrei dovuto aspettare una stagione di compiti, film in tv, amici nuovi per rivedere lei e Diego. Come se fosse scontato rivedersi. E in quel preciso istante, guardando il sole andare giù, capii cosa vuole dire diventare grandi.

Salutai in silenzio.

“Ragazzi vado, torno a trovarvi presto”

Abbracciai prima Andrea, poi diedi un bacio a Flavia.

“Buonanotte tu. E torna presto”.

“Buonanotte tu”