Non credo che quello sia stato il luglio più caldo della storia, non ci credo a queste statistiche da Studio Aperto. Di certo casa mia era rovente, torrida, infuocata. Si respirava a tratti e si sudava anche stando fermi. Muoversi era impensabile e l’unica soluzione sensata era quella di chiudersi in camera. Verso le sette di pomeriggio soffiava, quando ero particolarmente fortunato, il venticello dell’armistizio pomeridiano. Dopo che il sole aveva battuto sulle persiane per tutta la mattina, chiedendo di entrare con tracotanza, si ritirava verso l’altro lato della casa.

Una casa improvvisata, dove avrei dovuto passare qualche mese “prima di trovare una soluzione più consona”. E invece avevo scoperto, mio malgrado, che quella casa incompleta era stata una delle chiavi della mia realizzazione. Perché se per dieci anni non hai la possibilità di rilassarti, e di sentirti a tuo agio su un divano o una poltrona, l’unica alternativa che hai è uscire. A mangiarti la notte. Avrei fatto così anche quella sera, perché tanto dentro casa non si poteva stare. Mi arriva un messaggio:

“Ti porto la cena?”

Claudia mi aveva preso a cuore, e non ho mai capito perché. Non ero mai stato troppo carino con lei, e per di più a casa mia l’aria era irrespirabile. Non mi sembrava una grandissima idea la sua.

“Ok, ti aspetto alle nove” le risposi.

Provai a mettere a posto, ma iniziai a sudare dopo i primi due movimenti a decisi che l’unica soluzione era aspettare l’imbrunire. Possibilmente fermo. Misi il naso fuori dal balcone e respirai il calore che veniva dall’asfalto della zona industriale. Mi chiesi come ci avevo pensato a vivere in un ufficio adibito a soluzione abitativa e non mi diedi risposta fino a quando non vidi, in lontananza, la macchina verde di Claudia. Mise il freno a mano e scese velocemente, mi diede una rapida occhiata dal basso intimandomi di aprirle, senza proferire parola. Claudia saliva le scale a modo suo, con veemenza e la fretta di chi se ne frega dell’eleganza e della classe. Portava due buste piene di cibo, e non era tipo da baci e saluti calorosi.

“Cazzo guardi, non vedi che ho tutte e due le mani occupate. Vuoi che apparecchi anche?”

In effetti non aveva tutti i torti. Avrei quantomeno potuto fare trovare la tavola pronta. Non dico tipo pranzo della domenica ma almeno due tovagliette dell’Ikea. Appoggiò tutto sul tavolo e andò in cucina. Una cucina che aveva visto due volte in vita sua, eppure dove sembrava trovarsi a suo agio. Con quel caldo. E la vista più brutta di tutta la città.

“Da casa mia si vede il mare – disse mentre cercava le forchette – però anche questa situazione di open space industriale non è male”. La cosa incredibile era che non sembrava sarcastica. Mi presi del tempo per risponderle.

“È una situazione provvisoria”

“No, davvero non è male, e poi il mare è sopravvalutato. Cioè, che te ne fai del mare se poi sei sempre incazzato?”

“Tu sei incazzata?”

“Quando vengo qui no”. In due minuti aveva già organizzato il cenone di capodanno sulla mia tavola.

Dove c’erano cibi giapponesi di tutti i tipi, mischiati a quelli cinesi, che poi in realtà vengono tutti dalla stessa cucina e cambiano solo le ricette.

“Ti piacciono i ravioli ripieni? mi chiede. Ma non aspetta la mia risposta.

“Poi ci sono gli involtini primavera. E il risotto alla cantonese. Ah, ti ho preso anche il pollo alle mandorle, è il mio preferito, cioè in realtà preferisco quello in salsa agrodolce, ma…”

“Ma non ti sembra di aver preso un po’ troppe cose?”

“Giusto, beh in realtà ho fatto un salto dal mio amico indiano che ha la trinciapolli e mi sono fatto dare anche le coscette di pollo” Era serissima. Questo le dava un certo fascino, anche se non si era vestita certamente come una che andava all’appuntamento della vita. Portava una felpa di un paio di taglie più larghe e un paio di scarpe gialle, da running.

“Non mi hai mai parlato del tuo ragazzo, cioè, non…”

“Vuoi sapere se è geloso?”

“No, mi piacerebbe sapere cosa gli dici quando vieni qui” dissi mentre davo un morso alle cosce di pollo dell’amico indiano.

“Prendi un po’ di risotto alla cantonese”

“L’ho preso, ma è secco, preferisco gli spaghetti di soia”

E magicamente Claudia tira fuori dalla seconda busta un’altra vaschetta.

“In realtà più che il mio ragazzo lo definirei un coinquilino. Viviamo insieme – era carina mentre parlava con la bocca piena, anche se completamente sgraziata – ma non condividiamo più nulla”.

“E non ti ha mai chiesto di me? Cioè, non si chiede cosa faccio, chi sono?”

“Non credo gli interessi, e comunque non sa che esisti ovviamente. Cosa dovrei dirgli? Vado a consolare un amico che si è lasciato con la ragazza?”

“In effetti. Mi passeresti un po’ di pollo alle mandorle?”

“Le coscette non le finisci?”

“Ti posso confessare una cosa?”

“Prego. Poi te ne confesso una io”

“Se c’è una cosa che mi fa schifo è il pollo”

“Guarda che è pollo anche quello cinese!”

“Sì, ma è tagliato in maniera diversa, cioè non sembra pollo. Non si vede la coscia, non si capisce che è un animale”

“Sei sensibile, per avere la tua età”

“No, sono solo un ipocrita, se vedo le fattezze di un animale ho delle remore”

“Io sono stata vegana per un anno, poi mi sono rotta il cazzo” disse mentre spolpava le ossicine del pollo italiano cucinato dall’amico indiano. E no che non era credibile nella sua versione vegana.

Iniziai a sudare. Mi asciugavo la fronte con i tovaglioli e la guardavo. Era impassibile, sembrava non soffrire il caldo, eppure c’erano quaranta gradi, che a casa mia diventavano cinquanta.

“Cazzo guardi?” il suo lessico, così poco femminile non mi entusiasmava, ma mi faceva sorridere. E sorridere, in quel momento della mia vita, era l’unica cosa da fare.

“Cosa dovevi confessarmi?”

“Io?…”

“Sì, avevo detto che anche tu avevi una cosa da dirmi”

Entrò un leggero fresco, un anelito di vento. Il sole era definitivamente tramontato e finalmente si poteva stare fermi senza sudare. Ci fermammo un attimo a godere quel vento che ci accarezzava la faccia. Era un vento di città, non veniva dal mare, ma bastava a rinfrescare per un attimo i nostri pensieri.

“Devo confessarti che non mi piaci per niente. Cioè, non ti fare strane idee. Io vengo qui perché mi diverto, e perché mi annoio a guardare il mare tutte le sere”.

Non le risposi. Troppo ampio il ventaglio di cose che avrei potuto dire e che forse avrebbero cambiato il senso delle cose. A volte c’è una sola da fare con le donne: tacere. Mi limitai a sorridere e a versarle un goccio di vino. Lei guardò l’orologio.

“Cazzo, devo andare, è tardissimo”

Mi diede un bacio sulle labbra scappò via.

“Non ti illudere. Volevo solo sapere l’effetto che fa”.

La seguii con lo sguardo mentre entrava in macchina e ingranava la prima e poi forzatamente la terza, senza passare dalla seconda.

Dopo qualche secondo non la vidi più, aveva già ripreso la strada del mare. Sulla mia tavola resti di cibo cinese e giapponese, ossicini di pollo e tovaglioli intrisi di sudore. Sulle mie labbra l’effetto che fa.