L’ultima volta che l’avevo vista indossava un paio di jeans stretti alle caviglie. Talmente stretti che, quando provai a toglierglieli prima di fare l’amore, dovette aiutarmi lei. E quanto ridemmo di quella situazione. Della mia fretta. Della sua lucidità.
“Scusami, ma non lo avevo previsto”, mi disse, mentre si liberava le caviglie da quel groviglio di tessuto super stretch.
“Io sì”, le risposi, ma senza alcun barlume di presunzione. Non sono mai stato presuntuoso, in amore. Semplicemente, ero sicuro che sarebbe andata così.
“E che altro hai previsto?”, mi chiese, mentre faceva volare via i vestiti dal letto e lasciava andare i suoi ricci rossi – più arancioni, in verità – sul cuscino.
Non risposi.
Ci sono domande alle quali non bisogna rispondere, sono solo un trabocchetto. È una questione di ritmo, di battere e levare.
Domande che devono restare irrisolte, a cui rispondere con un bacio. Dubbi fugati da una carezza. Da un sospiro o da un gemito.
L’ultima volta che l’avevo vista aveva la pelle chiara e le braccia non ancora tatuate. Se le guardava spesso, però, come se cercasse un’idea; come se avesse la certezza che lì, un giorno, ci sarebbe stato dell’inchiostro. Indelebile.

“Ho come l’impressione che tu li abbia sempre avuti quei tatuaggi”, le dissi. Erano passati quindici anni da quell’ultima volta.
“È quello che accade a chi sa portarli bene”.
“Non sapevo che ci fosse un modo di portarli, i tatuaggi”.
“Ti sbagli”, rispose, mentre sorseggiava un rosso antico. “Ci sono persone che hanno un grosso problema con l’eternità”.

Non avevamo più fatto l’amore da quella sera, lei era andata via da Taranto per lavoro e non me l’ero sentita di seguirla.
Ecco perché non avevo risposto alla sua domanda: avevo previsto tante cose – certo, non proprio tutte quelle che sono successe –, ma quanti secondi avrei avuto prima di incappare nelle sue labbra e illudermi di poterci restare per sempre?
E quanti ne avrei dovuti perdere a spiegarle che avevo una paura tremenda del futuro, della distanza, del suo lavoro e di quanto le nostre vite avrebbero preso strade diverse?

“Tu, piuttosto”, mi chiese a bruciapelo, “hai ancora quel tatuaggio con il sole che abbraccia la luna?”.
“Beh, sono indelebili a quanto pare. Sì, è ancora sulla spalla. O, almeno, dovrebbe essere lì”.
“Ed è rimasto l’unico?”
“Pensa che lo avevo persino rimosso. Quindi sì, è rimasto l’unico. È un tatuaggio così, un po’ anni ’90…”.
“Lo avevi copiato da Jovanotti, se non ricordo male”.
“Qualcosa del genere, aveva un suo senso all’epoca. Magari ce l’ha ancora, anche se ammetto di avercelo qualche problema con l’eternità”.
“Sai che, certe notti, mentre tu dormivi, restavo sveglia a fissarlo?”.
Non potevo saperlo, ma ricordo che ogni tanto mi baciava la spalla destra. Nel cuore della notte.

“Pensavo”, riprese, mentre un venditore di rose cercava di distrarci, “che non avrei mai potuto fare a meno di quel sole. Lo guardavo e mi faceva sentire sicura”.
“Oggi penseresti solo che è fuori moda”, bevvi anche io un sorso del rosso.

Mi chiese se stavo bene. E come stava Ginevra.
“Cresce, quest’anno andrà a scuola. Ha due case, due famiglie, due camere dei giochi. Se non mi rinfaccia tutto verso i vent’anni, direi che procede bene. Nonostante tutto”.
“Sono sicura che sei un buon padre”.
“Non mi sarei mai perdonato il contrario”.

Taranto era meravigliosa quella sera. Placida. Il mare, scuro, rifletteva la notte mediterranea.
I due marinai sul lungomare guardavano l’orizzonte, fiduciosi come sempre. Immortalati in un saluto che mi ricordava la giovinezza di mia madre. Lei aveva sempre un aneddoto divertente sui marinai che la corteggiavano. Usava proprio quel termine, corteggiare. È così desueto, ma era proprio quello che stavo facendo io, in quel momento, con Daniela.
Sulle panchine i ragazzini bevevano birra, mandavano messaggi vocali e alzavano la voce. E non c’era vento che la portasse via. L’aria era frizzante, come la loro gioventù. Quella andata, di mio padre insieme a mia madre. E la nostra.

“Ricordi quando tornavo a Taranto, d’estate, e tu facevi finta di non avermi mai conosciuto?”, mi disse.
“Ma se la prima volta che ho provato a salutarti, eravamo a Canneto Beach, hai abbassato lo sguardo, Daniela”.
“Fammi capire: mi lasci senza un vero motivo, non ti fai sentire per un anno, mi rivedi e mi saluti da lontano con la mano, come se nulla fosse. Senza nemmeno venirmi a chiedere scusa. Cosa avrei dovuto fare?”.
“Vuoi una risposta dopo quindici anni o è una domanda retorica?”.
“Tu sei retorico”.

Aveva ragione. Ero stato abbastanza retorico. E scontato.
Come scontata – quanto istintiva – sarebbe stata la domanda successiva.

“Ma tu ti ricordi, esattamente, perché ci siamo lasciati?”, le chiesi.
“Vuoi davvero saperlo dopo tutti questi anni?”.
“Non ci siamo mai dati una risposta, ma posso attendere ancora. Non ho fretta”.
“È strano”.
“Cosa è strano?”.
“Che a vent’anni si ha un sacco di fretta, dopo i trenta impariamo a non averne. Eppure, dovrebbe essere il contrario. Non credi, Giò?”, mi disse.

Restai senza parole per quanto cavolo avesse ragione.
Avevo avuto fretta quando il nostro futuro era tutto da scrivere; non ne avevo adesso che entrambi già contavamo un tentativo a testa – fallito – di famiglia.

“Come mai sei tornata a Taranto?”, le domandai.
“Perché avevo bisogno di ricominciare. C’è chi si taglia i capelli e chi cambia città”.
“Non hai cambiato città, sei tornata indietro”.
“No, in realtà, non la vivo così. È cambiato tutto. Per me è un posto nuovo questo”.
Per quanto a me non sembrasse cambiato di una virgola, invece.
“Mi sento a casa adesso”, continuò. “Prima non l’avevo capita, la mia città”.

Avrei voluto chiederle di fare l’amore.
In quel preciso istante.
Ma avevamo troppe cose da dirci ancora.

“Verresti a casa mia adesso?”. Non volevo dirglielo, davvero. O non così almeno, ma non riuscii a farne a meno.
“Ginevra?”.
“È dalla madre”.
“Vuoi fare l’amore?”.
“Non ho fretta”.
“Giusto, dimenticavo”.
“Allora che vengo a fare?”, si fermò un istante e mi guardò negli occhi, esattamente come aveva fatto la prima volta che ci eravamo conosciuti. Con la stessa malizia.
“Potrei cucinarti un piatto di spaghetti”.
“Stronzo. È la stessa scusa della prima volta. Dovevi cucinare per me spaghetti aglio olio e peperoncino e non avevi nessuno dei tre ingredienti!”.
Si accese una sigaretta, non ricordavo fumasse. O, magari, aveva cominciato da adulta. A volte succede.
“Forse non avevo neanche gli spaghetti, ora che ci ripenso”.
“Ma da quant’è che non ci facciamo un piatto di spaghetti a mezzanotte? Io è tipo da una vita”.
“Da quando il tempo lo potevamo fermare”.
“È vero. Lo fermavamo, il tempo. Nel cuore della notte”.

Lo fermammo ancora.
Anche se mancava il peperoncino.
C’è sempre qualcosa che manca, quando decidi di preparare quel piatto. A volte è l’aglio, a volte il peperoncino. Quando sono tremendamente sbadato, persino l’olio. Sono tre ingredienti così semplici, lo so. Dovrei averli sempre.
Ma ci vuole troppa premeditazione e io – come per la presunzione – non ce l’ho mai avuta.