Guardi la strada e ti stupisci. La carrettera esta vacia come dicono da queste parti. Ha smesso da poco di piovere e il cielo si è aperto. Di nuovo. Davanti a noi un azzurro mai visto, poche nuvole che scivolano via veloci verso la costa, a portare acqua e allegria. Sono strani da queste parti: sono felici con il sole, sono allegri con la pioggia. L’aggettivo “metereopatico” non è contemplato.

La Gol che guida Giacomo ha il ritmo di un vacanza; il suo piede non spingerebbe mai oltre i cento, non è la sua natura. Fa un caldo tropicale, ma odia l’aria condizionata e il Messico vuole sentirselo appiccicato alla pelle. Finestrini abbassati, tanto la radio non c’è, e nessuno dei due ha troppa voglia di parlare. Ci conosciamo benissimo, siamo due amici di quelli che potrebbero stare giorni in silenzio, senza imbarazzo. Devi solo controllare che non si addormenti, ogni tanto. Perché la siesta da queste parti è impietosa, anche per i forestieri come noi.

Tu pensi, a come sei finito qui, al coraggio che hai avuto a lasciare il lavoro, alla paura di ricominciare. Perché tanto lo sai di cosa ti caghi addosso, altro che il Chiapas, i Maya, gli Zapatisti. È tornare a casa la paura più grande. Tanto vale godersi l’aria afosa, il sudore, che in fondo non è così male se non te ne frega niente di dove stai andando. Un cartello indica che lo Yucatàn è finito, e che siete approdati nella regione di Campeche. Il sottotitolo è “Quiero Estar Ahi!”.

“Hai visto sulla guida come si arriva in albergo?”

Vorresti dire sì, ma in realtà non sai nemmeno a che pagina della Lonely Planet sia “Campeche”. Fai finta di nulla perché se Giacomo ti scopre ti impartirà una lezione di geografia delle sue. Non sapere a memoria che Campeche è distante anni luce dalla pagine che stai frettolosamente sfogliando è un lusso che non puoi permetterti. Tu di strade non capisci nulla. Quando trovi la mappa la capovolgi tre volte facendo finta di aver finalmente colto qual è la direzione giusta. Poi ti distrai a guardare il lungomare, la gente che danza, il sole che non vuole saperne di calare. Giacomo con la coda dell’occhio guarda la Lonely tra le tue gambe e capisce che deve girare a sinistra. Lui è uno di quelli che se gli dai la mappa di Los Angeles, il giorno dopo ti sa dire come arrivare alla decima di Beverly Hills.

“Ti ho detto di guardare la mappa, non di mettere le foto su Instargram”

“Eh vabbè scusa, io sono l’addetto al reportage, tu…”

“…La manovalanza”

Accosta, con tutta la prudenza del mondo. Si guarda intorno prima di aprire lo sportello. Uno prudente è accorto pure dall’altra parte del mondo.

“Guida tu, che forse non ci perdiamo” – e non c’è motivo di controbattere. È un’idea brillante la sua. In fondo tu guidi meglio, lui sa leggere le mappe. A volte basta poco. Basta rispettare i ruoli ed esaltare le caratteristiche di ognuno. Il mio capo non lo capiva, per questo mi sono dimesso.

Arrivate nei pressi dell’Hotel Lopez, e sembra non ci sia posto. State discutendo sulle opzioni possibili quando passa una macchina con due ragazze.

Lei sorride.

Tu sorridi.

Dopo dieci giorni di viaggio è il primo sorriso, il primo segnale di una presenza femminile in Messico. Lo lasci scivolare via.

“Amico, le hai viste quelle due, ci hanno sorriso” affermi con superficialità. Come se quella non fosse la notizia in grado di cambiare verso a quel viaggio.

Il tempo di girarti e Giacomo non c’è più. Sta rincorrendo la macchina e lo guardi stupito, quasi vorresti fermarlo quando lui con la mano ti fa segno di salire in macchina. Roba che nemmeno James Dean.

Hola” un po’ ti vergogni

Buena!” il loro entusiasmo ti invita a rimandare l’intento.

Le due ragazze non sono le messicane che avete visto fino a quel punto del viaggio. Non sono azteche, sono latine. È la sottile differenza che passa tra Frida Kahlo (con tutto il rispetto) e Shakira, a meno che non siate amanti della pittura. I loro volti e i loro lineamenti potrebbero far cambiare i piani di qualunque itinerario. E farvi prendere in considerazione l’idea che girare è una gran bella cosa, ma restare è il vero privilegio di un’avventura che si rispetti.

Le ragazze ci portano in un locale molto affollato, dove un cameriere uguale ad Arturo Vidal vi accompagna al tavolo. State morendo di fame, mentre loro chiariscono che hanno già cenato e che in quel posto si beve soltanto. Vi fate consigliare e Alejandra, una con la faccia da amazzone e le mani da fashion blogger francese, ordina con convinzione un Michelada. La segui a ruota. Giacomo ti guarda e ti chiede cos’è.

“E che ne so, se l’ha presa lei sarà buona”

Inizia il balletto

E cosa c’è dentro?

È piccante?

È forte?

Non è che mi ubriaco?

È dolce?

È amara?

C’è la droga?

È legale?

Hai rotto il cazzo Giacomo.

Il tempo di finire una polemica sull’opportunità di dimostrare le proprie debolezze enogastronomiche a due ragazze messicane, chiedendo se il drink è troppo forte, che il sosia di Arturo Vidal arriva con quattro intrugli ghiacciati. Ora, se non avete mai assaggiato la Michelada, il consiglio è di farlo senza sapere cosa c’è dentro. Giacomo per poco non la vomita. Tu ci pensi.

Primo sorso. Sorriso di lei. Secondo sorso. Altro sorriso. Ingurgiti come se non ci fosse un domani, o come se quel domani ti spaventi da morire, cosa che poi non è così distante dalla realtà. In fondo non fa così schifo. Anzi, è proprio buona. La Michelada è una birra, di solito leggera tipo la Corona o la Sol, mischiata a tabasco, salsa Worcester, succo di limone, chili in polvere, un pizzico di pepe nero, pomodoro e ad un’abbondante razione di sale che copre il bicchiere. Sale rigorosamente da leccare sul bordo del bicchiere prima di dissetarsi. La scena delle due ragazze che leccano il sale vale il prezzo della birra.
Quella di Giacomo che ordina una cedrata rimandando indietro la sua un po’ meno.

La Michelada è una bevanda controversa, ognuno ha il suo modo di prepararla e raramente vi capiterà di berne due uguali. Ancora si cerca di capire quale sia la versione autentica in un paese dove la tradizione orale prevale su quella scritta e il locale vince sempre sul globale. È per questo che la Michelada di Campeche è diversa da quella di San Cristobal e da quella Cancùn.

Lo spagnolo inizia a diventare più fluente. Si parla di quello che fate, ti inventi di essere uno scrittore, tanto non capirebbero mai qual è il tuo vero lavoro. Non lo capisce nemmeno tua madre, d’altronde. Giacomo non direbbe una cazzata nemmeno sotto tortura, per cui resta fedele al suo ruolo di ingegnere. Le tipe annuiscono. Tu ordini un’altra Michelada per tutti e una cedrata per Giacomo.

La notte di Campeche scivola via veloce tra ricette inventate e libri mai scritti. Ci si conosce appena, e forse non ci rivedrà mai più. Ma il ricordo di quell’intruglio di emozioni, paure, avventure, birra, pepe, sale e coraggio non vi abbandonerà più da quel giorno. E devi già ricacciare indietro una punta di nostalgia, come se tutto questo stia inesorabilmente scivolando nei ricordi. Ma tornerete nel Campeche. Anche se ti torna in mente quella frase di Jim Morrison, quel monito: “Non tornare mai dove sei stato felice”.

Ma chi ha mai parlato di felicità? Non si viaggia per essere felici. Si viaggia perché si deve. Ben sapendo che se resti fermo, prima o poi ogni incanto svanirà sotto l’inesorabile macina dell’abitudine. Ecco perché ci si rimette in marcia, dopo essere stati bene in un luogo. Anche se un sorriso e uno strano miscuglio di birra, sale, pepe, Messico e coraggio possono cambiare la vita per sempre.