C’era la nebbia quella sera, ma non potevo restare a casa. Misi il cappotto pesante e infilai le mani in tasca. Tanto i guanti non li trovo mai quando li cerco, sono sempre altrove. Con il tempo ho rinunciato persino a prenderli in considerazione. Alla stregua degli occhiali da sole, che quando mi servono non si palesano mai. È per questo che ho rinunciato a entrambe le cose. Gli accessori non fanno per me, passo giù troppo tempo a curarmi dell’essenziale. Ad oggi non ho mai perso un portafoglio, un telefono o un mazzo di chiavi. Trovatemi un altro che in vent’anni non ha mai perso le chiavi. E non posso pretendere di tenere la concentrazione così alta anche per un paio di occhiali da sole o di guanti. A qualcosa bisogna pur saper rinunciare, nella vita.

Camminai con le mani in tasca e lo sguardo basso, come sempre.
Da piccolo, mio padre mi rimproverava perché diceva che avevo un passo remissivo. Io, ieratico, gli rispondevo che mi piaceva semplicemente vedere dove mettevo i piedi. Il vantaggio è che non ho mai pestato una merda, così. Mio padre se n’è andato senza vedere quanto è diventato remissivo il mondo intero, impegnato a camminare sì con la testa bassa, ma per scorrere le notifiche del telefono.

Ci eravamo dati appuntamento al solito posto, e alla solita ora, ma appena esposi le mie mani al freddo di quella sera mi resi conto di essere in anticipo di circa mezz’ora. I miei appuntamenti con Cora non erano scanditi da un messaggio, né da una telefonata. Il giovedì era il nostro giorno perché così era deciso, e perché avevamo scoperto di avere quella insana passione comune. Non cambiai passo, il fatto di essere in anticipo non cambiò i miei programmi. Mi limitai a rimettere le mani in tasca e a sfidare i volti di chi mi passava davanti. Li guardai negli occhi, ad uno ad uno, e scoprii che era difficile, tremendamente difficile, incrociare lo sguardo di qualcuno in quella città. Erano tutti così impegnati, così indaffarati, sorridevano o mostravano rancore soltanto nei confronti dello schermo. Sia beninteso, io non ero diverso da loro. Avevo solo freddo alle mani. Arrivai nel luogo dell’appuntamento, salutai Davide che mi rispose alzando gli occhi dalle parole crociate.

“Davide, ma tu davvero passi le serate giocando al cruciverba? – gli chiesi

“Al cruciverba non si gioca” rispose serafico.

“Negli ultimi venti anni hanno inventato passatempi più contemporanei!”

“Provo disgusto per la parola contemporaneo. E poi una delle manifestazioni più lampanti della decadenza umana sta in questa nuova idiozia di dedicarsi a Netflix.”

Non ho mai capito se Davide si chiamasse davvero così. Quando eravamo piccoli, e venivamo nel suo negozio, io e il mio amico Giovanni lo chiamavamo David, in onore di Ginola, giocatore del Paris Saint Germain al quale assomigliava per via dei capelli neri e lucidi che raccoglieva in un codino simile a quello di Fiorello. Ma lui era più esotico e un soprannome francese gli stava bene.

“L’hai vista?”

“È passata un paio di giorni fa, ma ha scelto un film discutibile. Commedia sentimentale, musiche rivedibili, sparuti momenti di esaltazione e abissi di noia.”

“Dettagliato. E perché non l’hai consigliata?”

“Una volta i clienti ti chiedevano consigli, oggi cercano le recensioni su Google. Fatti loro”.

“Beh, è già tanto che veniamo ancora qui in effetti. Anche tu, non hai cambiato nemmeno la moquette.”

“Ho fatto un corso di Marketing a Bovino e uno di questi esperti di web mi ha detto che per il mio business la moquette funziona. È vintage, dice lui. Mette tranquillità. E poi vuoi mettere, è soffice”.

“Certo, il guru si è scordato di dirti che soffice fa rima con acaro, però”.

Poi entrò lei. Indaffarata. Frettolosa. Distratta. Dunque un connubio tracotante di sex appeal. Quel posto si trasformò in un tempio dell’indeterminatezza. Cora mi passò davanti, andò a cercare dei titoli, non prima di aver restituito a David la sua commedia sentimentale.

“Ti prego consigliala tu perché non reggerei un’altra scelta sbagliata” dissi a Davide.

“Vieni qui ogni giovedì, non sarebbe ora di capire almeno come si chiama?”

Già, perché non si chiamava Cora. Quello era il nome che le avevo dato, in attesa di trovare il coraggio di parlarle. E in un posto vintage come una videoteca, non poteva che avvenire a voce. A proposito, ma quando non ci sono più i videoregistratori, come si chiamano le videoteche?

“Anche tu passi le serate in videoteca nell’epoca di Netflix?” chiese mentre leggeva la trama di un film sul retro di un dvd.

Mi limitai a ripeterle, in maniera piuttosto raffazzonata, la battuta di Davide. Le piacque.

“Facciamo così: io ti piaccio e questo si è capito. Tu mi piaci, anche se non ti ho mai sentito parlare e potresti essere uno di quelli che guarda Il sesto senso e a metà film non ha ancora capito che Bruce Willis è il morto, che ne dici se tu scegli il film e io la cena?”

Era la prima volta che riuscivo a strappare un appuntamento ad una donna senza parlare. Anzi, con una battuta riciclata da Davide.

“Vedo che sei d’accordo. Le melanzane abbottonate ti piacciono?”

Non dissi nulla. Ancora una volta. Era troppo importante non sbagliare la scelta del film, a quel punto.

“Ma a te esattamente cosa piace di questo posto? Della videoteca, intendo?” Si fermò. E io fui costretto a parlare.

“Il momento della decisione. Che poi è fine a se stessa, perché puoi scegliere anche online, ma qui ogni scelta sembra decisiva. Sembra ultima. Poi non lo è, ma è più emozionante di un clic. È più bello del gratuito. E poi c’è la moquette. E la moquette mi ricorda di quando ero piccolo. Ma non mi prendere per un nostalgico. Sono solo uno che non smette di apprezzare. Possiedo uno stato permanente di malinconia, quello sì. Ma è una malinconia buona.”

“Non mi hai nemmeno chiesto come mi chiamo. Ti faresti cucinare le melanzane abbottonate da una che non sai come si chiama?”

“Ci farei anche l’amore. E ci guarderei anche un film avanguardista, se è per questo. Non necessariamente in quest’ordine.”

“Io sono Yilenia”.

“Ylenia con ipsilon?”

Lei annuisce con occhi grandi e non aggiunge parola. Non ci ero andato lontano, in fondo, chiamandola Cora. Decisi in quel momento che per me sarebbe stata Cora con la ipsilon. Abbassiamo gli occhi e ci scopriamo timidi. Timidi, imbarazzati e anacronistici. Gli altri fuori stanno flirtando col loro narcisismo, come si fa in vacanza. Noi no. Noi stiamo scegliendo un film. Come se fosse l’ultimo. O comunque come se fosse quello più importante che abbiamo mai visto. Mi prende per mano e mi porta via. Il tempo di rendersi conto che ho ancora le mani ghiacciate e di mollare la presa, ma solo per un attimo.

“È così freddo fuori?”

“No, sono io che odio i guanti.”

Scelsi un termine desueto per dirle che era di una bellezza disarmante. Lei mi disse di non illudermi. Poi uscimmo e ci confondemmo tra la nebbia.