Poi arriva il giorno che non sei più la piccolina di casa. E Gesù Bambino lo porta qualcun altro. Non a casa mia però. A casa mia succede ogni anno qualcosa per cui, la più piccola, finisco per essere sempre io. Il figlio di mia sorella è mussulmano come il padre, e perciò esentato da questa tradizione, l’amico di famiglia è talmente stronzo che mette a dormire la piccola prima della mezzanotte. Mio fratello non ne parliamo proprio. Sono dieci anni che non lo vedo, da quando è andato a vivere a Berlino e si è sposato con quella tedesca con il nome francese, Nadine. Siamo una famiglia internazionale noi, la colpa è di quei freak dei miei genitori, gli ultimi ricercatori ad aver usufruito di uno stipendio dignitoso in questo Paese.

È successo una vita fa, c’era Pippo Baudo che presentava Fantastico e la Cuccarini che si contendeva il ruolo di madrina con una certa Alessandra Martines che chissà che fine ha fatto. Piaceva tanto a mio padre Cesare. E insomma, mio padre riuscì persino a comprare la seconda casa al mare prima di andarsene via in pochi mesi per colpa di quella malattia che a casa mia non si può nominare. A casa nostra, oramai, è Natale 2.0: un tempo avevamo il giradischi, poi ci siamo aggiornati con il cd dei canti Natale. Mia madre lo conservava per undici mesi nello stesso scatolone dove teneva custodito, in un cellophane, il presepe, la tombola, il Mercante in fiera, alcune scorze scolorite di mandarino e un Gesù Bambino nero, sempre in onore di un’apertura mentale che faceva impallidire i miei nonni e arrossire gli amici di famiglia. Di cosa stavo parlando? Ah, della canzone. Qualche anno fa abbiamo virato su Youtube, ma è durato poco. Da quando c’è Spotify “Tu scendi dalle stelle” viaggia nella mia mano sinistra, fianco a fianco con il bambinello nero.

Sono anche la tecnologica di casa, io. Mio fratello, quello che non viene da dieci anni perché ancora non ha capito che il volo va prenotato qualche mese prima e che mamma non si sposta da lì, fa il poeta a Berlino. Pare scriva anche libri, e in ogni caso non sa nemmeno cos’è Netflix, per cui fa bene a restare a Kreuzberg. Che poi ammettiamolo, se io decidessi di smetterla a questo giro, nessuno se la prenderebbe più di tanto. Ma questo giro della casa, questo tour che passa dalla camera da letto sfatta di mia madre e dalla stanza della studentessa che non sono più, tipico di noi terroni, è l’unica tradizione che ci è rimasta, assieme a quella delle pettole, rigorosamente con le acciughe, e del capitone. Ultimi baluardi della cristianità, fortini inespugnabili della mia giovinezza. Il problema, amore mio, è che mentre gli altri bambini crescono, diventano fratelli maggiori, poi a loro volta padri o madri, o quantomeno zii, io resto sempre la figlia piccola.

E sono troppi Natali, e Dio solo sa quanto è brutta questa parola al plurale, che le lancette del mio orologio si sono fermate sulle stesse domande mal poste. Irritanti, saccenti, demagogiche. Il Natale non perdona, ma tu questo non puoi saperlo perché sei nato in un posto in cui queste storie non sono così rigorose, e il più piccolo ad un certo punto smette di essere tale, anche in assenza di altri pargoli da umiliare facendogli fare i capifila di una tribù di parenti sconnessi e stonati. Negli anni ho imparato persino a correggere quella iena di mia zia che ad un certo punto canta, ogni santo Natale, “Ah quanto mi costò l’averti amato”, come se fosse stata lei a sacrificarsi per l’umanità, e non il nazzareno. Natale, per me è la mattina della Vigilia a Bari. La passeggiata in centro: fare finta di avere ancora qualche regalo da comprare, salutare i tuoi amici che si destreggiano con i passeggini, il tipo che in terza liceo non ti filava e che adesso è diventato un cesso, l’amico che vive a New York e fa il figo con lo slang americano.

Io che vivo al Nord, e a Natale vado in giro con il giubbotto sottobraccio, “perché a Bari fa caldo” e mi chiedo come mai questa vigilia barese non sia un patrimonio dell’umanità o perlomeno una festa famosa come San Firmìn a Pamplona, con i caffè e i biscotti a forma di ferro di cavallo, la focaccia a pranzo e la birra che scende già che è un piacere, e ti aiuta a dimenticare che ancora una volta sarai tu, la piccola di casa, quella che un mese fa ha compiuto 32 anni, a portare Gesù Bambino in giro per le stanze della casa. Non posso dirti che non vedo l’ora, ma nemmeno che mi dispiace, perché in fondo c’è bisogno di punti fermi in questa vita, c’è bisogno di scoprire quale pettola contiene l’acciuga e quale no, anche a costo di mangiarne una in più, perché se prendi quella senza non puoi restare con “il desiderio”.

C’è bisogno dell’eterno dibattito tra panettone e pandoro, e lo so che tu preferisci il pandoro perché lo zucchero a velo ti fa festa, ma io dovevo trovare un modo per affrancarmi dal ruolo di piccola di casa, e in tempi non sospetti decisi che i canditi e l’uva passa potevano essere davvero un colpo a sensazione per la figlia di due ricercatori freak. C’è bisogno di scambiarsi regali sbagliati come profumi e cravatte a mezzanotte e alzarsi il venticinque mattina con l’amaro in bocca perché anche questa volta l’attesa è finita, e non c’è più nulla da scartare. Tu questo non lo sai, perché dalle tue parti non ti hanno tramandato questa spasmodica retorica dell’attesa. Ma questo Natale a Bari ti piacerà, anche se per noi ha talmente tanto peso la festa del giorno prima che gli abbiamo dato un nome: si chiama Viggiglia, con due gi di rinforzo. Ti chiedo solo di starmi vicino quando mia madre mi dirà di “mettere il disco” – la tecnologia avanza assai ma le frasi di circostanza no – e prendere Gesù Bambino. Anche perché, amore mio, sarà l’ultima volta che lo porterò io. Lo chiameremo Cesare, come papà.