Tutti gli amici che incontravo mi parlavano di Federica, mi chiedevano perché mi fossi fatto scappare una ragazza da manicomio come quella, e quando glielo dicevo non mi credevano, o pensavano che gli stavo rifilando una cazzata. Chissà perché erano tutti convinti che doveva per forza essere stata lei a lasciare me e non viceversa, e quando alla fine riuscivo a far capire l’antifona, si mettevano le mani nei capelli e dicevano che ero fuori di testa. Io continuavo a lavorare in agenzia, ma avevo perso entusiasmo. Avevo una gran voglia di rimettermi a scrivere.
Un giorno lessi sul giornale la notizia di uno scrittore francese che aveva provato a più riprese a far sì che gli editori lo prendessero in considerazione. Ignorato, il francese si era arrampicato sul cornicione di un palazzo, si era spogliato e aveva cominciato a declamare con un megafono stralci del suo romanzo, facendo spaventare una vecchia signora che passava proprio di lì. Arrivarono altre persone, i pompieri, i poliziotti e alla fine lo scrittore fu arrestato. In seguito alla vicenda però, un editore aveva preso in considerazione il romanzo del francese. Dopo averlo letto, aveva deciso di pubblicarlo. Il romanzo aveva avuto un successo strepitoso.
Chissà perché, a me, non mi era mai saltato in testa di mettermi a declamare pezzi di Domani No dal cornicione di un palazzo. Ma se anche lo avessi fatto, in questa città indifferente, nessuno mi avrebbe considerato di striscio. Il lavoro in agenzia mi aveva stufato. Gli altri colleghi si dannavano come matti e imprecavano se un lavoro non era piaciuto al cliente: lo prendevano a cuore quel lavoro. Io invece me ne fottevo. Tra l’altro, avevo scoperto che era molto più facile che un cliente accettasse un lavoro, se me ne fottevo. Non scrivevo una riga da mesi. Stavo con la faccia china sul computer dieci ore al giorno e alla sera ero sempre troppo stanco per mettermi a scrivere. Lasciai il lavoro i primi di maggio, dopo aver incassato l’ultimo assegno da 1500 euro.
Mia madre si incazzò come una bestia:
– Sei un insofferente – non porti mai a termine niente di quello che fai!
– Mamma, quel lavoro non mi piaceva più, anzi non mi è mai piaciuto
– Un lavoro non deve piacere!! Serve a portare a casa i soldi, a costruirti una famiglia, una pensione
– Un giorno lo farò facendo quello che mi piace mamma
– Tanti auguri, fammelo sapere, io sarò morta o mi sarò chiusa in un convento!
Mia madre è fissata con questa storia del convento. Lo dice spesso e un giorno lo farà davvero. È anche convinta che scrivendo non arriverò da nessuna parte. Odia talmente tanto questa mia ambizione che non ha mai letto nulla di quello che ho scritto. No, non è che vuole scoraggiarmi. Ha solo tremendamente paura di incoraggiarmi.
Non ho notizie di Federica da un pezzo. Sentivo la sua mancanza, certo. Ma reggevo, sicuro che prima o poi mi sarebbe passata.
– Io non ti capisco – continua mia madre – Federica era meravigliosa
– Lo so – le rispondo mentre sono intento a sfogliare una rivista che ritrae in copertina Belen, e che vicino alle cosce della tipa mostra un bollo di Padre Pio – ma era troppo perfetta.
– Tu mi manderai al manicomio: il lavoro non ti piace, la ragazza è meravigliosa ma è troppo perfetta, ma chi ti credi di essere tu?
Se le avessi risposto “uno scrittore” sarei finito dritto dritto fuori di casa, quella sera stessa. Mi limitai a dirle che avevo fame.
– Mamma, è tanto che non ceniamo assieme. Cosa c’è da mangiare?
– Ho scongelato le fave con le cicorie – quando mia madre parla di cibo, le si illuminano gli occhi. È un trucco infallibile: in quel momento potrei dirle che mi sono dimesso da Presidente del Consiglio.
– Ce le mangiamo?
Mia madre non risponde. Pattina verso la cucina con il suo passo stanco, quello della vedova che ne ha viste troppe, e inizia maneggiare tegami, coperchi e vecchi trucchi di famiglia. L’olio buono, il soffritto, il pane fatto in casa. Io le do una mano, le metto una mano sulla spalle e le dico soltanto:
– Andrà tutto bene
Mi piace tranquillizzarla. Ma con Federica non ci torno. Lei ama mangiare fuori e in questi cinque anni abbiamo passato troppo poco tempo in cucina. Quelle poche volte l’abbiamo fatto per sconsacrarla e farci sesso. Il piano cottura ha visto più volte lil suo sedere che la sua mano. Non ci siamo mai compresi tra gli odori e il soffritto. Non siamo mai stati veri. Come non era vero quel lavoro. Voglio fermare il tempo qui. In questa cucina, la stessa dove da piccolo facevo i compiti e dove oggi, tra fave e cicorie, ho deciso che scriverò il mio prossimo romanzo. Questo.