Segue il labiale come se avesse fame di lei.

La parola le si schiude sulle labbra come un bacio, poi le divarica leggermente la bocca, e dio solo sa quant’è bella quando lo fa, la M di ‘topinam’ chiude di nuovo le labbra in una piccolissima smorfia bambina, come quando assaggi qualcosa che ti piace.

Poi quel BUR, che riporta le labbra in fuori, come un altro bacio dato al cielo, al vuoto, all’aria che respira, e come gli piacerebbe in quel momento essere aria, respiro, sorriso che si forma su di lei, fino a quell’ultima sillaba, quella strana R finale che le fa tamburellare la lingua, di punta, sul palato.

“Scusi, me lo potrebbe ripetere? Topinamur?”

Ride, lei, al suono di quell’amore un po’ francese nascosto. L’ha fatto apposta, ovviamente. Ci sta provando, ma con galanteria.

Lei allora scandisce di nuovo le parole, come se avesse a che fare con un deficiente, ed è un po’ così, lui, quando qualcuna le piace davvero.

To-pi-nam-bur.

Glielo dice, accompagnando i suoni con la mano, come a battere il tempo di un solfeggio, come si fa coi bambini. Lui sogna che glielo dica come si fa con gli uomini: in un letto, tra lenzuola calde, sudati, insieme.

Lo farà, lo sa che lo farà. Glielo farà dire la prima volta che la metterà stesa, e la spoglierà piano. Le sussurrerà quanto le è piaciuta oggi, quando le ha detto Topinambur.

E lei allora lo ripeterà piano, lui la troverà ancora irresistibile, e la bacerà, entrando piano dentro di lei e facendo di quella parola un po’ stupida il loro segreto.

“Te lo pesano in cassa.” E gli consegna il sacchetto con quei due grossi tuberi.

“Oh, grazie.”

Lui pensava fosse il nome di un roditore.

Invece è il nome di qualcosa che ha a che fare con l’amore. Pensa un po’.