Erano giorni difficili, quelli di inizio aprile. Strano, perché di solito in quel periodo le giornate si allungano e ti viene voglia di uscire, mentre a me veniva solo voglia di restarmene a casa. Da quando avevo lasciato il lavoro mi ero messo in testa di vivere di scrittura. Ma non ero un granché ispirato. Chissà perché, le idee migliori mi vengono quando ne ho altre mille in testa. E il tempo per scrivere lo trovo quando non ho neanche un minuto per respirare. Sembra incredibile, ma la vita è più complicata quando non hai niente da fare. Eppure sapevo che quel periodo mi sarebbe servito a lasciar decantare i pensieri, a farli respirare. Come un vino che chiede ossigeno per sprigionare tutta la sua saggezza, così le mie storie avevano bisogno di stare ferme in un angolo della mia coscienza.

Del mio stomaco. Volevo sentirmi male, mi doveva venire da vomitare, a furia di tenermi dentro quello che mi capitava. E un giorno, quei racconti, sarebbero sbocciati. Vago sul lungomare anticipando l’estate, sfidandola con una maglietta a maniche corte e un pantaloncino bermuda fuori stagione, respirando l’odore forte del mare quando bagna i mattoni ammuffiti. Per me, che mancavo da troppi anni, è un odore piacevole. La vita è tutto un fatto di punti di vista e prospettive. La mia è il lungomare di Bari. Dritto. Monotono. Aperto. Riappacificante, credo per un fatto di inclinazione naturale e primordiale. Bevo affannosamente da una bottiglia d’acqua con l’ingordigia di chi sta vagando nel deserto da giorni. La mia passeggiata è un continuo riemergere da un’apnea profonda, per poi risprofondare nuovamente sott’acqua. La sensazione di sollievo dura meno di qualche istante nel quale cerco di inghiottire più aria possibile. Apnea.

Mi manca lei.

Non mi cerca da un po’, ed io ho sostituito i respiri con i sospiri. Nei miei sogni non sono comprese persone, suoni, immagini o profumi degni di nota. Sui muri, intorno a me non c’è nessun indizio che mi aiuti a capire cosa ci faccia – io – lì, in quel sogno. Così, allo stesso modo, mi chiedo cosa ci faccio adesso sul lungomare a camminare, quando dovrei essere altrove, a cercare lavoro. O a prendere lei. La prima volta l’avevo osservata per qualche minuto da lontano sperando di non essere scoperto, fino a quando ho racimolato il coraggio necessario per farmi avanti. Ogni passo di avvicinamento era così faticoso che avevo la sensazione di trascinare una lavatrice sulla schiena, consapevole del fatto che non avrei mai più incontrato nessuno di altrettanto incredibile nella mia vita. È stato in quel preciso momento, al suo primo sguardo, che ho pensato che, se non avessi avuto il coraggio di parlare, la futura madre dei miei figli sarebbe stata soltanto un triste ripiego. E che ogni bacio, da quel giorno in poi, mi avrebbe lasciato in bocca soltanto il gusto del surrogato. Come la stevia al posto dello zucchero. O il tofu al posto del formaggio. E io non ce la faccio a mangiare il tofu, con rispetto parlando. Lei era la mia mozzarella di bufala, il mio provolone piccante, il sapore vero e verace della sua terra di origine, e se queste immagini non vi sembrano poetiche come quelle di una rosa, una viola, o un vino fruttato, credetemi, non è un mio problema.

Continuo a camminare senza scegliere una direzione, lasciandomi trascinare dalla prima corrente che decide di impossessarsi di me. Il lieve strato di felicità che mi aveva avvolto a inizio giornata se n’è andato e non avendo nulla di meglio su cui concentrare la mia attenzione rivolgo ancora un pensiero a Maddalena e senza nemmeno rendermene conto, un plotone di pensieri in assetto da battaglia ha violato i confini di competenza e uno dopo l’altro si sono intrufolati nel mio cervello. Come quando sei a un un incrocio e hai la precedenza ma, un po’ per gentilezza un po’ perché sei soprappensiero, lasci passare una macchina dal senso opposto e subito altre dieci ne approfittano e tu ti ritrovi in mezzo alla strada, bloccato, ultimo di una coda che non sarebbe nemmeno dovuta iniziare. Ho iniziato a pensare a quando mi sono innamorato di lei.

Se solo quel giorno avesse banalmente piovuto, la storia sarebbe stata un’altra. Quelli erano il luogo e l’attimo del nostro incontro anche se noi non lo sapevamo. E se li avessimo persi, se non fossimo stati perfettamente allineati col destino, probabilmente quell’incontro non si sarebbe ripetuto per milioni di anni a venire, come succede alle comete o agli eclissi, e tutte quelle cose di cui io non capisco un cazzo. Invece siamo stati bravissimi e ci siamo fatti trovare ognuno al suo posto. Ci cascano tutti, ma se vi fermate un secondo a pensarci, liberandovi dagli stupidi cliché, retaggio di commedie sentimentali di bassa lega, capirete che non è così. Continuo a penetrare la folla come un coltello nel burro, poi mi fermo e prendo il cellulare dalla tasca. Le scrivo.

“Manchi TU”

TU lo scrivo con le maiuscole, è il nostro modo di porre l’accento su quanto c’è di più importante nell’universo.

“Ciao TU” mi risponde. E subito mi viene voglia di prendere un treno, un aereo, un battello a vapore, e raggiungerla in qualche luogo remoto della penisola, ovunque lei sia.

Davanti a me una coppia di ragazzi si bacia, mentre stringe un cartoccio di sgagliozze e popizze. Il cartoccio è unto di olio, ma i due non sembrano curarsene. Mi viene voglia di popizze, polenta, olio fritto e sale. DI baci e street food. Di lei. Torno indietro. E le scrivo un altro messaggio.

“Non sei mai venuta qui ad assaggiare le popizze. E nemmeno le sgagliozze. Adesso che ci penso, nemmeno la focaccia. Cioè, ti sei persa un sacco di cose tipo”.

Aspetto qualche secondo.

Visualizza ma non risponde.

Sta scrivendo.

Online ma non scrive.

Sta scrivendo.

Mi sale l’ansia.

Io non ce la posso fare così.

“Ok. Quando? Io sono qui che aspetto. Voglio proprio vedere”.

Poi aggiunge solo “TIPO” scritto in maiuscolo. Lo fa per sfidarmi e prendermi in giro.

“Allora vengo a prenderti, e ti scrivo un RITRATTO”

“In che senso un RITRATTO?”

“Hai presente il Titanic? Tu posi nuda per me, e io ti dipingo, cioè ti scrivo. Solo che anziché farlo su tela ti descrivo con tutti i sostantivi e gli aggettivi più preziosi che trovo”.

“ERNESTO”

“MADDALENA”

Silenzio.

Anzi, un punto.

.

Inizia a fare freddo sul lungomare. Metto il telefono in tasca, per ingannare l’attesa di una risposta che tarda ad arrivare. Compro anche io un cartoccio di sgagliozze e mi sporco le mani di olio, mi ungo di tradizione. Ripenso alla mia proposta, forse troppo ardita, del ritratto, fino a quando non la immagino nuda, sul divano di casa mia, a farsi guardare per ore, mentre io con un taccuino e una penna di quelle che scorrono bene sulla carta antica, descrivo i suoi occhi timidi, la sue mani con i  polpastrelli ruvidi, il bianco della sua pelle. Il mio desiderio di affondare il naso in mezzo ai suoi capelli, respirandone l’odore del balsamo e di un’insolita primavera ricca di promesse e controsensi. Di ritratti e olio fritto. Di dita da leccare per sentire il gusto ritrovato della propria città.

“Vieni a PRENDERMI” mi dice. Mi fa impazzire quando usa il maiuscolo. È perentoria, ironica e sopra le righe. È Maddalena. E io so di esserne innamorato.

Inverto il senso di marcia facendo leva sul piede perno, per poco non mi scontro con due turisti tedeschi che passeggiano a braccetto, chiedo scusa e respiro forte. Ripenso alla sua bellezza sicura, pericolosa e cosciente. Di quelle che ti mettono a disagio facendoti rimpiangere di non aver scelto con maggiore cura i vestiti prima di uscire di casa. Ma poco importa. Vado a prenderla. Vado a scrivere di lei. Sarà lei la mia passione, il mio lavoro, la mia occupazione, il mio errore, la mia ispirazione. Inizio a correre. A scansare le persone. Ho voglio di lei e di null’altro al mondo. E devo correre a dirglielo, perché adesso che è quasi sera davvero non si può più aspettare.