Non ho mai creduto ai bilanci. Quelli di fine anno intendo. Che senso ha fare dei bilanci a fine dicembre, quando fuori fa freddo e non ci si può nemmeno buttare in acqua e mettere la testa sotto, e poi venir fuori con prepotenza, allargare la braccia, guardare verso il sole e dire “Da domani cambio vita”.
Perché se non dobbiamo cambiare vita, allora tanto vale evitarlo il bilancio. Tanto siamo qui pronti a ripetere gli stessi errori, ogni anno, ogni santo cenone che dio lo maledica. Con le candele, le macchie di vino dell’anno scorso sulla tovaglia rossa, i frutti di mare crudi per tradizione, le coliche renali, le lenticchie che portano soldi, i panettoni avanzati dal Natale. Quelli che non sono buoni nemmeno per farci colazione. Nemmeno bagnati nel latte, e non venitemi a dire che con il pandoro è diverso.
Ci ho provato a fare un bilancio, è venuta fuori un’equazione matematica e non sono riuscito a capire se il risultato è positivo o negativo. Quello che so è che i bilanci non funzionano. Perché mica siamo aziende, siamo persone, e gli anni non sono “esercizi” ma spazi temporali da valutare col senno del poi. Che non vale mai un cazzo, ma in questo caso sì, e pure tanto. Ho sempre odiato quelli che fanno il countdown per liberarsi di un numero, quelli che “gli anni pari sono meglio dei dispari”, credo abbiano seri problemi di autostima. A me a stento mi interessa constatare che gli anni dispari sono quelli senza Mondiali ed Europei, e risolvila un po’ questa cosa.
Probabilmente sono persone che sopravvalutano il potere degli astri. Io l’oroscopo lo leggo, ma solo per farmi due risate. Poi puntualmente mi innamoro delle donne Toro o di quelle Leone, raramente capita di innamorarmi di un segno di acqua. Ma credo sia statistica, o semplicemente culo. O magari sono più propenso a confrontarmi con un determinato tipo di carattere, ma gli astri no.
Allo stesso modo ho sempre odiato quelli che devono a tutti i costi farti notare che il loro è stato un anno meraviglioso, ricco di amore e di successo sul lavoro. Credo sia per questo motivo che una festa collettiva diventa la più personale delle ricorrenze, e alla fine finiamo tutti per odiarla, anche per il fatto – motivo non trascurabile – che ci fa sentire tutti più vecchi e nostalgici. Malinconici nel senso più dickensiano possibile, tra fantasmi del passato, del presente e beato chi può dire la parola futuro.
E se non la odiate credo proprio che voi abbiate dei problemi, oppure avete un ricordo talmente felice del Capodanno che ha finito per condizionarvi e rendervi poco lucidi.
Conoscete qualcuno che ama il Capodanno? Se sì, vi prego, passatemi il suo numero di telefono. Voglio chiamarlo per chiedergli che problemi ha, e poi organizzare una festa con lui l’anno prossimo. È tutta una questione di aspettative, in fondo. Io ho iniziato ad odiare il capodanno a 10 anni, quando i miei mi portavano a Oppido Lucano. No, non fraintendetemi. Oppido Lucano è un posto molto bello, e la salsiccia è molto buona da quelle parti. Ma il mio ricordo è fatto di curve a gomito e riscaldamenti accesi in macchina. Di bambini troppo coperti che chiedono pietà ai genitori, e a pochi chilometri dall’arrivo si fermano a vomitare in un paese sconosciuto.
Immaginate con che gioia potevo sedermi a tavola per il cenone di San Silvestro. Prenotavamo ogni anno lo stesso albergo, le stesse camere, lo stesso veglione. La mia infanzia è stata abitudinaria, come una replica di Sapore di Mare, come i protagonisti di quel film che ogni anno si ritrovavano in Versilia. Io, invece, mi ritrovavo con altri bambini a Oppido Lucano, a ballare la Macarena o Saturday Night spinto da mia madre e mio padre. La prima volta che ho sentito un’attrazione verso una ragazza è stato ad un veglione di capodanno ad Oppido, ma la fine ingloriosa di quel corteggiamento fatto unicamente di sguardi mi costrinse a rivedere le mie tecniche di seduzione prima ancora di iniziare. Io guardavo. Lei guardava. Tutto filava liscio fino a quando mio zio non mi ha costretto a ballare vicino a lei. Sono sempre stato un tipo da sguardi. Quella mossa fu azzardata e del tutto priva di strategia. L’imbarazzo prese il sopravvento su quella sala piena di palloncini, festoni, fischietti e cappellini fantozziani, tipici dell’epoca della democrazia cristiana, quando tutti eravamo felici e dovevamo farlo vedere, a patto di non venir meno alle nostre abitudini, ai nostri cenoni, alle lenticchie che portano soldi e alla salsiccia di Oppido Lucano.
Ma davvero voi avete un bel ricordo dei vostri veglioni di capodanno? O sono rimasto traumatizzato io e ho finito per temere questa festa alla stregua di Ferragosto e molto di più del Natale e della Pasquetta? Almeno in quelle occasioni non si fanno bilanci. Almeno quando ci ricordiamo il Ferragosto c’è sempre un bacio, una stella cadente, una chitarra, una canzone, un bagno di notte, e potrei andare avanti per ore al punto che questa sembrerebbe davvero una storia d’amore e non un tentativo di rimozione catartico di una festa che non sopporto. Almeno se penso alla pasquetta c’è un Erasmus, un viaggio, un turno di campionato felice con l’Inter che vince, una partita di pallone sulla neve o sgusciando tra le parmigiane e i cofani delle Alfetta ai laghi di Monticchio. Ma il Capodanno no. E la colpa è anche di mio zio, di quella sua odiosa canzoncina sulla fine delle vacanze “È fernuta a zezzenella”, di quel suo maldestro tentativo, fatto di occhiate maliziose e gesti da filotramviere, di farmi ballare con quella ragazza, Anita se non ricordo male.
Forse è per questo che sono tornato qui, in questo meraviglioso paese della Basilicata, tra le colline alternate alla valli, a non festeggiare il Capodanno. A mangiare salsiccia e a cercare uno sguardo da ninfetta come quello di Anita. Lontano dai bilanci, da ciò che è negativo, da ciò che è positivo, da ciò che inutilmente e dannosamente estremo. Per pensare che questo è davvero un giorno come tanti altri.