Una cartina geografica alle spalle può condizionare la tua vita. Se sei timido, e passi la maggior parte del tempo a guardare il muro, puoi rischiare di imparare tutte le capitali del mondo a memoria. Peccato che un bambino che conosce i nomi di tutte quelle città e la loro collocazione “politica”, verrà etichettato per il resto dei propri anni come “autistico”, senza mezzi termini. I colori di quella cartina sono stati i miei migliori amici per 5 anni, quelli delle elementari. Non era difficilissimo farsi un’idea del mondo. La capitale dell’Unione Sovietica era Mosca, e già avevi risolto gran parte dei problemi, ma io per portarmi avanti, siamo alla fine degli anni ’80, iniziavo a individuare le principali città di Ucraina, Moldavia, Estonia e Bielorussia. Di guardare avanti, d’altronde, proprio non se ne parlava. Al massimo guardavo di lato.

La mia compagna di banco era nata il mio stesso giorno. Il 22 maggio del 1979, e come nelle migliori favole questa storia non poteva che culminare con un grande amore. Sognato, perché io proprio non sapevo come si faceva a piacere ad una donna. E sì, perché quella bambina di nove anni, si spostava il ciuffo dei capelli soffiando all’insù e quando mi guardava negli occhi sapeva ipnotizzarmi come una Sirena. Indossava un grembiule bianco che per me era un abito d’alta moda e sartoria. i miei ricordi hanno tutti il colore del suo grembiule. Candido. Niveo. Il mio blu, invece, era quello di un onesto operaio della geografia, un mestierante delle cartine che non sarebbe mai riuscito a far valere queste sue conoscenze né a scuola, né con la donna dei suoi sogni. A volte mi chiedo perché la maestra non interrogasse mai sulle capitali del mondo, avrei preso il massimo dei voti; ma deve essere scritto da qualche parte che questa capacità non implica alcun tipo di successo. Non sono mai stato particolarmente smaliziato con le donne, ma deve essere stato in quegli anni che ho imparato ad avvicinare il mio gomito a quello della mia vicina di posto, con l’unico intento di sfiorarlo e stabilire un contatto.

Non l’ho mai baciata, per carità, ma sognavo tutte le sere di poterla toccare, anche solo per un attimo. Quando lei, distrattamente lasciava incustodite le matite che sgranocchiava durante le ore di aritmetica, provavo ad assaggiare il suo sapore. Sapeva di legno, burro cacao e femmina. Anche se Francesca era una bambina. E non conosceva le capitali a memoria, perché ad una bella bambina, futura meravigliosa donna, non serve mica sapere qual è la città più importante della Bulgaria. Quando la campanella suonava invidiavo il suo papà che poteva toglierle il peso della cartella di dosso. Quanto avrei voluto prendermi tutto il peso delle sue cose e accompagnarla verso casa. All’epoca se eri innamorato di una bambina dovevi sapere a memoria l’indirizzo e il numero di telefono di casa sua. Era una di quelle cose che segnavi sul diario e non dimenticavi mai più. Una di quelle cose che non avrei usato mai, perché il coraggio di telefonare e dire “Pronto sono Cristiano, c’è Francesca?” io non ce l’ho avuto mai.

E credo non ce l’avrei tutt’ora, che facciamo gli eroi con chat e social network, e non dobbiamo più affrontare un padre che ci dice “Sì, ma tu chi sei?”. Gli avrei risposto, “Il compagno di banco, quello che conosce tutte le capitali a memoria”, ma non credo sarebbe bastata. Nella mia scuola andava di moda il gioco delle parentele. Dovevi identificarti come figlio del dentista, del notaio, del direttore delle poste e allora potevi avere udienza. Mio padre mi vedeva spesso silenzioso durante il tragitto verso casa. Ma non mi ha mai chiesto niente di quella ragazza, né il nome capitale della Bolivia, una domanda che avrei comunque gradito in egual misura. Nella maggior parte dei casi si limitava ad un vago “Come è andata oggi a scuola?”. E credo che nessuno abbia mai risposto in maniera differente da “Bene”, con quel tono che di buono non ha davvero nulla.

A pranzo, tra un piatto di pasta e fagioli e una mozzarella in carrozza, tra portate di formaggio e mele sbucciate, perché così si vedeva in TV su “Il pranzo è servito”, studiavo nuovi modi per conquistare lo sguardo di Francesca. Inventavo storie che scrivevo su fazzoletti di carta, per poterle dire che volevo sposarla. Noi bambini romantici siamo dei gran megalomani, non esistono soluzioni intermedie. Mi ero messo in testa che l’avrei sposata a Montevideo. Quel posto, così distante, mi ispirava un fascino esotico. Uruguay, e pochi sapevano di cosa stavo parlando. Inventavo di avere dei parenti lì, di conoscere la città, che un giorno ci sarei andato assieme a lei. L’avrei spostata con il grembiule bianco. C’è quel vestito nei miei ricordi. Un unico, meraviglioso punto di riferimento. Allacciato fino all’ultimo bottone, senza spille e cafonate da maschietto.

“Ma che ci fai ancora con il grembiule? Voglio vedere cosa ti metti domani a scuola se lo sporchi d’olio” – urla mio padre mentre appoggia sul tavolo la banana tagliata con limone e zucchero, un suo marchio di fabbrica.

Chiudo il mio atlante, vado a togliermi il grembiule, e penso che in questo mondo ingiusto sapere tutte le capitali a memoria non varrà mai un cazzo. Nemmeno l’amore della mia compagna di banco. La donna che sposeró a Montevideo, vestita con un grembiule bianco.