In tv stanno trasmettendo il mio programma preferito, uno di quelli in cui mostrano cinque minuti di gol e poi passano tre ore a fare chiacchiere, commenti e analisi onanistica di ogni episodio arbitrale. I telegiornali mi hanno annoiato da tempo, il porno è stata una parentesi, le fiction non le sopporto. Forse ce l’ho fatta. Posso spegnere la tv. Vado in cucina, perché ho bisogno di stare un po’ da solo. Senza rumori, senza voci di sottofondo. I bambini dormono e Laura sta leggendo, in camera sua. Penso che se le porto qualcosa le farò una bella sorpresa, che mi sorriderà, e quello sarà il miglior premio della mia giornata. Se le chiedo cosa vuole rovinerò la sorpresa, e allora provo a fare quello che so fare meglio: rovesciare una vaschetta di gelato in una coppa.

Quante ne ho alzate di coppe, tutte individuali, nessuna di squadra. È proprio vero quello che dicono: se non vinci con la tua squadra non hai realizzato niente di importante. In compenso mi sono divertito, ma qualcosa è mancato. Il mio vecchio allenatore diceva sempre “Ognuno deve fare il suo ruolo, non me ne faccio niente di un difensore che segna se poi prendiamo contropiede per colpa sua e perdiamo la partita”. Ecco, io sono proprio quel tipo lì, il difensore che si spinge in avanti, che proprio non ce la fa a stare al posto suo, ad obbedire alle indicazioni del Mister. Aspetta, copri, spingi, ma non troppo. Tieni d’occhio l’ala, e la frase “cosa ti avevo detto di fare?” l’avrò sentita 1000 volte in carriera. Una volta risposi pure al mister, dopo un gol all’ultimo minuto che ci diede la vittoria. Gli dissi “questo non me l’aveva detto, mister”. Sono finito in panchina, per tre domeniche di fila.

Il gelato è ghiacciato, devo temporeggiare, e sperare che Laura non venga in cucina, altrimenti mi rovinerebbe la sorpresa e il suo sorriso non esploderebbe all’improvviso, come vorrei. Ci siamo conosciuti quando giocavo ad Ancona, ma a lei non le è mai fregato nulla del calcio. Non sapeva neanche che giocavamo in serie A e che le cose per il sottoscritto andavano discretamente bene, economicamente dico. Ci siamo conosciuti in libreria, a non pensate a quelle stronzate che dicono, che il calciatore non legge o cose simili, perché io ho conosciuto un sacco di compagni più colti di amici che si sono laureati. Ma questo particolare non ha nulla a che fare con Laura, che in quella libreria si occupava dell’inventario, ed era una ragazza bellissima nonostante i capelli raccolti non le stessero particolarmente bene. Ci siamo guardati, poi io ho ripreso a sfogliare il romanzo che avevo tra le mani e poi ho alzato nuovamente lo sguardo e lei era ancora lì.

Quelle domeniche il mister era particolarmente incazzato, perché rischiava l’esonero. Io avevo segnato quattro gol, ma ne avevamo preso trenta. Molti per colpa mia. Non marcavo. Non coprivo. Non seguivo l’ala. Con Laura ci eravamo rivisti, una sera. L’avevo invitata a cena, ma non conoscendo bene la città e avendo chiesto un consiglio alla persona sbagliata avevo clamorosamente sbagliato locale. Il personale era scortese, il tonno alla brace niente di chè, per me che sono nato in Liguria. In compenso, Laura, aveva capito dove poteva venire a vedermi, allo stadio Dorico, tutte le domeniche. Giocavo per lei. E sapete cosa vuole dire giocare per una donna? Fregarsene dei compiti che ti dà il Mister. Una che non segue il calcio non capirà mai che il gol l’hanno preso per colpa tua. Piuttosto ti sorriderà dopo un gol. Insomma, mentre noi precipitavamo in B, io ero felice, perché nel giro di tre mesi avevo strappato quattro sorrisi e un numero di telefono.

Poi il mister decise di cedermi, e i tifosi non la presero bene. Anche loro, evidentemente, non capivano nulla di calcio. Il bugiardone, il nome del giornale locale, diede la notizia con la mia foto in prima pagina. Appresi da lì che mi avrebbero spedito lontano. Chiamai Laura. Al primo squillo penso “che cazzo sto facendo”, al secondo spero che non risponda, al terzo anche, al quarto mi dico “Un altro squillo e basta”, dopo il quinto resisto con “un ultimo squillo”, giusto per non lasciare il dubbio sulla serietà del mio tentativo. Al sesto mi risponde.

“Sei vivo allora? – il tono è polemico, ma poi ci scherza su – guarda che il pesce non era poi così male”

“Sì, ho avuto qualche problema a lavoro”

“Perché, da quando lavori?” – ride

“Stupida. Comunque mi cedono, tra tre giorni devo essere a Catanzaro”

“Mi hai chiamato per salutarmi?”

“No, ti ho chiamato per chiederti se ti va di provare il tonno alla brace. Come lo fanno in Calabria, intendo”.

Andai a giocare in C.

Ma non ero incazzato. Laura decise di provare come facevano il pesce in Calabria. Apprezzò i frutti di mare, il vino, u’ Morzeddhu, preparato con le interiora del vitello. Io guadagnavo molto meno, ma ero libero di fare gol. C’era un compagno bravissimo a coprirmi, ogni volta che io tentavo di andare nell’area avversaria. Quella era la mia dimensione ideale. Non avrei vinto nulla, ma avevo accettato la mia dimensione. Non ero fatto per rispettare ruoli e mansioni. Non ero nato per vincere e per far parte di grandi progetti. Ero uno splendido individualista, un terzino con i capelli lunghi e col vizio del gol. E quando qualcuno allo stadio chiedeva a Laura chi fossi, lei, con un sorriso raggiante baciato dal sole della Calabria che puntualmente nel secondo tempo illuminava proprio quel pezzo di tribuna dove sedeva lei, rispondeva: il numero 3, quello bello.

Quel sorriso avrebbe fatto sciogliere qualunque cosa. Il cuore delle persone, i ghiacciai, i gelati. Come questo qui, che non accenna a sciogliersi. Aspetterò con pazienza. Perché poter avere pazienza è il traguardo più bello che ho raggiunto nella vita. Lei è lì che mi aspetta. E mi ama. Il resto non conta. La sorprenderò con un’incursione delle mie. Con uno spunto da ex giocatore che non sa rispettare i ruoli. E che ha imparato a farsene una ragione.