C’è stato un momento in cui mi sono sentito immortale. Dev’essere durato un’ora, o poco più, non ricordo. C’era il sole quella sera, e posso assicurarvi a Santiago De Compostela, è una cosa rara. Passeggiavo lungo il parco dell’Alameda, quello dal quale ad un certo punto si erge, maestosa, la Catedral. Zaino in spalla e kway sotto braccio, ombrello sempre pronto, perché da quelle parti non si sa mai. Pensavo di essere arrivato in Spagna e invece ero arrivato in Galizia. Europeo in una terra che faceva fatica a sentirsi spagnola. Quelle prime settimane di Erasmus te li porti addosso per il resto della tua vita. Come il cielo di Santiago, così bello da essere leggero anche nei giorni di pioggia. Una pioggia incessante, che può durare anche settimane. Che problema c’è, dicevano i miei inquilini. “Basta avere le scarpe adatte, non quelle da fighetti che indossate voi italiani”. E io, lo ammetto, ho cambiato anche le scarpe. Si chiamavano Chiruca, ed erano bruttissime. Ma l’ho fatto per stare più comodo e camminare senza paura sotto quel cielo. Senza perdermi nemmeno un attimo di quello splendore, per controllare dove mettevo i piedi. A volte mi chiedo quante cose ci perdiamo oggi, per abbassare lo sguardo su qualcosa di estraneo a ciò che stiamo vivendo. A Santiago ho parlato due lingue, ho dimenticato per un po’ l’inglese, ho pensato e sognato con parole diverse dall’italiano. Parole non sempre esatte. Ho passeggiato per le vie di una città antica e meravigliosa. Sono stato felice ogni giorno o quasi e sapevo di esserlo. Come quando sogni e non vuoi svegliarti. Vuoi prolungare quel momento perché sai benissimo che non tornerà. Ho pedalato a testa alta, ho dato indicazioni ai passanti illudendomi in maniera consapevole che quella fosse davvero casa mia. Ho pianto, perché in qualunque esperienza indimenticabile non si può non piangere, ho baciato, ho lasciato, ho tradito. Mi sono innamorato. Perché sotto un cielo così bello non puoi non farlo, senza badare alla ragione. Dall’Alameda si vede la Catedral, e nei giorni di sole puoi verificare a che velocità viaggiano le nuvole. La stessa dei miei ventidue anni. Arrivò Angelo, e mi abbracciò forte.

“Ciao Puglia! – mi chiamava così in onore della mia regione d’origine ma lo faceva on la G dura, gutturale – mi piace, perché mi abbracci. Non sei come quelli che hanno paura di stringerti. Come se due ragazzi non dovessero farlo. Sicuro di essere italiano, macho?”

Aveva ragione. Troppe volte ci siamo negati un abbraccio, tra uomini.

“Dove mi porti?” gli chiesi, dimenticandomi di rispondergli.

“A mangiare la migliore empanada della città. Sei mai stato da Casa de Xantar?”

Nunca” gli dissi, fiero del mio spagnolo. Anche se lui parlava solo gallego.

“Devi provare l’Empanada de Bonito”

La empanada gallega la si trova ovunque, dal bar al supermercato, dal ristorante al chiosco, in tutta la città, ma quella di Casa de Xantar, effettivamente, era una cosa unica al mondo. Intrisa di olio fino all’anima, come l’odore che si respirava in quel posto, possiede un ripieno di tonno, il famoso “bonito”, appena pescato. Per mandarla giù ci vuole un vino rojo, di quelli decisi. E subito i discorsi prendono un’altra piega.

“Come ti trovi qui?” mi disse Angelo mentre mandava giù un sorso di tinto gallego della casa.

“Benissimo, mi piace passeggiare per le vie dalla città”

“Il clima?”

“Ho comprato le Chiurica”

“Questo non è molto da italiano. Voi vivete per le scarpe.”

“Meglio, così non riconoscono”

Il ripieno dell’empanada cadde nel piatto, mentre ridevo di gusto. Feci per raccoglierlo con le mani, poi mi fermai. Imbarazzato.

“Che fai? Quella è la parte migliore” Lo prese con le sue mani e lo mangiò. Era sensuale. Non credevo avrei mai potuto pensarlo, di un ragazzo.

“La tua ragazza?” Aggiunse, mentre continuava a rubarmi il ripieno che mi cadeva dall’empanada.

“Non la sento da un po’, credo ci farà bene stare un po’ lontani”

Nel frattempo lo guardavo. Lo guardavo e mi piaceva. Aveva le sopracciglia folte, la barba incolta, ed era vestito come uno che non si cura del pensiero degli altri. Trasmetteva tranquillità e sicurezza, e per la prima volta le labbra di un uomo mi attraevano. Le guardavo senza timore di essere giudicato. Santiago è la città giusta per sentirsi a proprio agio. Lo sarebbe stato per il resto del mio soggiorno. Passeggiamo verso casa, tra le vie in salita e le prime avvisaglia di pioggia. Continuammo a chiacchierare per un po’, fino a quando non mi accorsi che ero arrivato. Carmen e Rebecca, le mie coinquiline, mi guardavano dalla finestra. I primi giorni erano preoccupate, perché avevano paura che io mi perdessi. E così mi aspettavano. Ma ormai avevo imparato bene la strada. Abbracciai ancora Angelo, e lo ringraziai per la serata. Lui mi guardò negli occhi, e io non abbassai lo sguardo. Lo sostenni, lo incoraggiai a farlo ancora. Mi guardò e mi mise una mano sul viso. Poi ci baciammo. Fu la mia prima e unica volta della mia vita. Sentii il sapore del vino, dell’empanada e di labbra diverse da quelle che ero abituato a baciare. Più ruvide, ma non meno delicate. Come la pietra di Santiago quando piove, e riesci a vederne meglio le scanalature. Come un ripieno di bonito. Come un sentimento raro, ma non diverso. Perché l’amore ha sempre un sapore buono. Anzi, bonito. Come un bacio maschio. Come un’empanada a Santiago.