“Lenticchie o fagioli?”
“Come papà?” – gli rispondo mentre sono intento a sfogliare le ultime pagine del Corriere dello Sport. Il principe di casa, tornato da scuola deve trovare sempre una copia del suo quotidiano preferito. Mio padre aveva accettato di buon grado questo compromesso: la sua soddisfazione era vedermi leggere, e poco importava si trattasse di un quotidiano sportivo. Iniziavo a leggere le ultime pagine, per arrivare pian piano a quelle più interessanti. Mi sedevo a terra perché facevo fatica a tenerlo tra due mani piccole e troppo poco maschili, e in quel modo potevo evitare di fare pieghe poco professionali da cui difficilmente sarei riuscito a tornare indietro.
“Ho detto: lenticchie o fagioli? Visto che i ceci non ti piacciono, devi decidere che legumi mangiare. Non posso farti ogni giorno la pasta!”
Mio padre trascinava le ciabatte, e si dilettava in cucina. A pranzo spettava a lui visto che mia madre usciva dall’ufficio alle due. Niente di importante, ma aveva imparato benissimo a scaldare, condire, impiattare. Mi prese alla sprovvista.
“Allora lenticchie” risposi.
Avevo dieci anni e non ero un grande amante dei legumi. Ma come in tutte le circostanze della vita, mi piace essere messo di fronte ad una decisione. Devo odiare qualcosa, rendermene indifferente un’altra e scegliere la terza. Non fu una decisione ponderata, anzi. Non era vero che i ceci non mi piacessero, ma mio padre ricordava così e non mi andava di contraddirlo. Era vero che i legumi non mi stavano particolarmente a cuore, che preferivo i rigatoni col sugo e il risotto giallo. Che la fettina di carne mi dava meno noia della coscia di pollo e che il pranzo non poteva iniziare senza un pezzo di formaggio di quelli buoni.
Dopo pochi minuti sento strisciare le ciabatte di mio padre che, con fare da equilibrista, regge un piatto di lenticchie fumanti. Ripenso sempre a quella scena e mi chiedo come abbia fatto a non cadere mai. Io ci speravo, ma non chiedetemi perché. Forse perché vedere un genitore fare un errore lo rende più umano. Più vicino a te. Ti dà l’opportunità di poterlo rimproverare, una volta tanto.
Cambierò idea dieci anni più tardi, quando mio padre perderà la vista ed entrerà in depressione. E allora vederlo così umano, nello sbattere agli spigoli delle porte o nell’inciampare sulle scale e rotolare giù avrebbe fatto male sul serio. A me le lenticchie piacevano. E mi piaceva il suo modo di servirle, così poco elegante e formale. Quando non c’era mia madre, mio padre mi permetteva di leggere il giornale a tavola e guardare la fine de “Il pranzo è servito”. E la vita era tutta lì; in un Italia che dalle 13 in poi poteva dedicarsi ad altro io ero il re. Un re che mangiava lenticchie e leggeva il Corriere dello Sport.
Mi facevano pranzare prima perché così potevo dedicarmi ai miei compiti. Su questo, mia madre era stata fiscale, inflessibile: prima studi e poi fai tutto il resto. Applicavo talmente alla lettera questo dettame che certe volte, al posto del Corriere, portavo a tavola il libro di grammatica o l’antologia. La matematica no, quella proprio non la digerivo. Poi alle due si ripeteva un rito. Ogni giorno, alla stessa ora. Di inverno, in primavera, in estate, fino a quando non ci trasferivamo alla villa al mare. Mia madre tornava dall’ufficio e quella frizione la sentiva tutto il palazzo. Anche quello di fronte.
Noi interrompevamo qualunque attività. Il ruolo di mio padre era quello di aiutare mia madre a trovare un parcheggio, e guidarla dal balcone nella manovra. Il mio invece, quello di appostarmi sul citofono per poter aprire alla velocità della luce. Ero diventato bravissimo. In tanti anni di onorato servizio non ho mai fatto aspettare più di un secondo. Poi iniziava la gara per chi doveva aprirle la porta e prendersi per primo il bacio. Naturalmente io ero più scaltro e veloce, e vincevo. Col tempo ho capito che era tutto un trucco, ma mi piaceva lo stesso. Poi la vedevo arrivare, ed era bella come in una fotografia da ragazza. Ricordo tutti i rumori. La chiave che infilava nella cassetta della posta, l’ascensore, il contorno inutile degli altri condomini che venivano a rubarsi la scena. Il primo bacio era il mio. Poi mi giravo, perché il loro bacio non era una cosa che mi riguardava. Ma in quel momento sentivo l’amore. Ed era un amore puro, spensierato, felice. Era l’amore che avrei voluto vivere anche io, un giorno.
“Ciao caro, scusami ti ho trascurato” – la cameriera mi riporta nella realtà. Sono già le due e tra mezz’ora devo rientrare a lavoro.
“No tranquilla – dò un’occhiata al menu del giorno, ma inconsciamente devo averlo già guardato – prendo le lenticchie”
“Ottima scelta, sono quelle di Appignano. Faccio subito, scusa il ritardo”
Vorrei dirle di fare con calma. Vorrei raccontarle una storia e dirle che mio padre e mia madre, ogni giorno, erano capaci di fermare il tempo a quest’ora. Che da bambino mangiavo solo le lenticchie, mentre adesso vado pazzo anche per i ceci e per i fagioli. Ma non capirebbe, anche se è sempre tanto gentile con me.
“Ti dispiace se prendo il Corriere dello Sport?”
“Ma scherzi, te lo porto io”
Me lo consegna, si aggiusta i capelli e sorride, abituata a quelli che pranzano con un occhio sullo smartphone e un altro sul piatto. Io mi tengo i vizi della mia infanzia. E ripenso a quell’amore puro di mio padre e mia madre, mentre il cuore mi si riempie e una lacrima mi cade nel piatto. Aggiungo un po’ d’olio e mando giù. E mi sembra di sentire la frizione della macchina di mia madre che non arriverà. Nemmeno oggi.